Cultura e scienze
Charlie Hebdo e l'hara-kiri in difesa della libertà d'espressione
di Giovanni Drogo
Pubblicato il 2015-01-08
Dopo la strage di Charlie Hebdo “siamo tutti Charlie”. Ma cosa significa davvero? Una vecchia storia può aiutarci a ricordarlo
Ieri sera molte persone sull’Internet sono andate a dormire credendo di essere Charlie Hebdo. Questa mattina alcune di quelle persone in Italia hanno scoperto che si può essere Charlie Hebdo come i redattori di Libero che hanno detto senza mezzi termini che Islam equivale a terrorismo e a morti ammazzati per strada. Oppure che anche Marine Le Pen può essere Charlie Hebdo anche se oggi sta già invocando la reintroduzione della pena di morte. Come è possibile essere Charlie in questo modo? Ma soprattutto cosa significa essere Charlie?
HARA-KIRI
Delle molte vite di Charlie Hebdo stanno parlando un po’ tutti, perché è una delle caratteristiche della storia del giornale quella di essere stato chiuso o sull’orlo della chiusura parecchie volte. C’è stato un tempo in cui la rivista satirica si chiamava Hara-Kiri e un giorno, in occasione della morte dell’ex-Presidente della Repubblica Charles De Gaulle, il giornale uscì con una prima pagina che faceva satira sulla morte del fondatore della Quinta Repubblica, avvenuta lo stesso giorno della morte di un centinaio di persone per un incendio scoppiato all’interno di una discoteca. Nella vignetta si legge “Ballo tragico a Colombey – la residenza di De Gaulle – un morto”. Per questa battuta il Governo fece chiudere Hara-Kiri che riaprì i battenti qualche tempo dopo con il nome di Charlie Hebdo. A quanto pare quindi non sono solo i pericolosi terroristi islamici (o i musulmani) a voler far chiudere un giornale. E non sono stati solo i giornali come Hara-Kiri/Hebdo a essere decapitati dalla ghigliottina della censura francese. Una decina di anni fa il Governo francese tentò addirittura di controllare l’Interwebs. Tutto iniziò nel 2000 quando un attivista anti-neo-nazisti trovò su Yahoo una serie di annunci per la vendita di memorabilia nazisti (svastiche, decorazioni guerra, insegne delle SS e così via). Dal momento che la legge francese proibisce qualsiasi forma di pubblicizzazione del razzismo (OH WAIT, è questa stessa legge potrebbe essere usata contro le vignette Charlie Hebdo!1) e soprattutto vieta di indossare o esibire le insegne del terzo reich la Ligue contre le racisme et l’antisémitisme et Union des étudiants juifs de France intentò causa a Yahoo per chiedere la rimozione degli articoli in vendita. Dal momento però che i server di Yahoo dove erano hostati quei contenuti non erano in Francia ma negli USA dove, secondo Yahoo, la vendita era legittima perché protetta dal Primo Emendamento della Costituzione USA (emerse poi che alcuni server erano in Svezia). Ciononostante il giudice stabilì l’istituzione di un blocco informatico in modo da impedire agli utenti francesi di accedere al sito di aste di Yahoo. Al di là di come è andata a finire la vicenda (tra processi in Francia e processi in America la cosa si concluse solo nel 2006) è interessante notare due cose abbastanza ovvie: la prima è che perfino le due democrazie figlie dell’Illuminismo, Francia e Stati Uniti, hanno un modo differente di intendere la libertà di espressione. La seconda, altrettanto ovvia, è che la censura non è qualcosa che “i musulmani vogliono imporci” ma che fa parte essa stessa del processo democratico.
AND BY THE WAY, WHICH ONE’S CHARLIE?
Cas Mudde ci spiegava ieri su Open Democracy che no, non possiamo essere Charlie Hebdo. Mudde qui si riferisce all’hashtag #jesuischarlie che ha cominciato a circolare nell’Interwebs subito dopo la strage e che è stata anche la “parola d’ordine” delle persone che ieri notte si sono radunate in Place de la Republique per manifestare la propria vicinanza alle vittime, al giornale e agli ideali che hanno difeso fino alla fine. Secondo Mudde non possiamo dirci Charlie per tre motivi: innanzitutto quelli che oggi difendo Charlie Hebdo (come Matteo Salvini e Marine Le Pen) lo fanno in modo “selettivo” e strumentale ai loro scopi politici, facendo finta di dimenticare che quello stesso giornale aveva preso di mira anche persone come loro, suscitando la loro indignazione per l’ennesima boutade di “quei bolscevichi”. Eh sì, perché una delle cifre stilistiche di Charlie è proprio quella di non aver timore di nessuno e di fare satira contro tutti, che fossero musulmani, cattolici, di destra o di sinistra. Nessuna garanzia per nessuno, nessuno si salva tutti sono stati bersaglio della feroce satira di Charlie Hebdo. E quindi nessuno potrebbe essere Charlie, se non Charlie stesso. Il secondo motivo, per Mudde, è che “molte persone” che oggi sono Charlie in realtà sono dei democratici troppo moderati. Persone che credono, che ingenue!, che un dibattito democratico debba essere un dibattito civile. La democrazia non è un pranzo di gala! E in un impeto di relativismo assoluto che rasenta l’idiozia Mudde chiede: perché la religione dovrebbe essere più tutelata, nel dibattito pubblico, più delle critiche sull’ultima partita del Paris Saint German? Non è questione di tutele è questione di registro del discorso. In un dibattito pubblico i toni possono essere accesi ma se non viene lasciata aperta la porta al dialogo allora questo è un soliloquio. E lanciare bombe atomiche non è mai stato molto utile per esportare la democrazia. Ma se quelli che la pensano come Mudde sono interessati ogni tanto su certi siti dell’Internet viene a galla un’immagine molto particolare: è una foto di un Corano, aperto, e come segnalibro l’autore ha messo uno stronzo e una fetta di bacon croccante. La foto è presentata come “l’argomento finale in un dibattito religioso”. Terzo e ultimo motivo per cui è assolutamente vietato usare l’hashtag #jesuischarlie: le persone sono spaventate di dire quello che pensano dell’Islam, si auto-censurano e questo non è certo quello che hanno fatto quelli di Charlie Hebdo. Quindi non hanno il diritto di dire “io sono Charlie”. Quella di Mudde, la sua teorizzazione della libertà di espressione solo per i “duri e puri” è molto divertente, nel tentativo di difenderla come il più alto prodotto della società occidentale riesce a negarla ad altri. Non c’è dubbio che la macchina dell’hashtag solidale sia uno dei meccanismi più criticabili dei social network, che sia un modo per consentire un’adesione facile e senza sforzo alla “causa sociale” del momento. Ma è grottesco che nel tentativo di stigmatizzare questa pratica si commetta un “crimine” ben peggiore. Può non piacere, può essere di cattivo gusto ma la libertà di espressione vale anche per le cose che non ci piacciono, non solo per quelle che ci fanno sentire più democratici o intelligenti.
I TWEET #JESUISCHARLIE
#JeSuisCharlie Tweets
Foto copertina via Twitter.com