«Vi spiego come vede il mondo un bambino con l'ADHD»

di Chiara Lalli

Pubblicato il 2014-09-30

Il disturbo da deficit attentivo con iperattività: come si diagnostica? E come su cura? E, soprattutto, è vero che non esiste? Intervista a Pietro Panei, ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità.

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Qualche giorno fa Massimo Enrico Baroni (M5S) ha presentato un’interrogazione parlamentare sull’ADHD, ovvero il «Disturbo da Deficit Attentivo con Iperattività (ADHD, acronimo per l’inglese Attention Deficit Hyperactivity Disorder), un disordine dello sviluppo neuropsichico del bambino e dell’adolescente, caratterizzato, secondo i criteri del Diagnostic and Statistical Manual Of Mental Disorders (DSM-III; DSM-IIIR; DSM-IV*), da inattenzione e impulsività/iperattività.
 Nello specifico, il DSM-IV distingue tre forme cliniche: inattentiva, iperattiva, combinata. Nel corso dello sviluppo, lo stesso soggetto può evolvere da una categoria all’altra manifestando nelle varie fasi d’età le tre differenti dimensioni psicopatologiche in modo variabile» (* qui il DSM V sull’ADHD). Di ADHD sono andata a parlare con Pietro Panei, ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità.
Che cosa è l’ADHD?
«Dovremmo intanto cominciare a parlare più in generale del disagio psichico infantile e adolescenziale. È un dominio molto vasto, al cui interno c’è anche il deficit da attenzione associato all’iperattività. È una delle forme più diffuse, con una prevalenza che varia da paese a paese. Dall’1% dell’Italia al 4-5% degli Stati Uniti. Il dibattito è molto animato al riguardo. Secondo la letteratura internazionale dovremmo avere circa il 3-4%, ma alcuni studi condotti tra il 1993 al 2003 ribadiscono la stima su cui noi concordiamo: l’1% (si veda anche Prevalenza dell’ADHD in una popolazione pediatrica e sua esposizione al trattamento psico–comportamentale e farmacologico). Anche l’Istituto Mario Negri conferma questo numero. Questa differenza è legata anche al contesto. Il contesto è molto importante pure nella percezione, da parte del soggetto, dei sintomi clinici. Un bambino che vive in campagna, per esempio, e che può correre e giocare sta meglio del bambino (con quadro clinico uguale) che vive in un appartamento di 50 metri quadrati, magari in una periferia senza parchi. Il contesto è poi determinante per l’evoluzione dei fattori di rischio: in alcune condizioni possono restare tali senza arrivare alla malattia».
Il contesto è anche la scuola: classi con molti alunni, meno insegnanti – tra cui quelli di sostegno, quasi estinti. Sono spesso proprio gli insegnanti ad accorgersi che qualcosa non va. Una volta informati i genitori, cosa si fa?
«Siamo ancora un paese abbastanza fortunato per quanto riguarda la sanità pubblica: c’è una rete di pediatri pubblici e di servizi. La prima cosa da fare è parlare con il pediatra del proprio figlio. Sarà il medico, in caso, a consigliare una visita specialistica presso una struttura territoriale di neuropsichiatria infantile».
La diagnosi dell’ADHD è clinica e comportamentale. Ci sono stati e potranno esserci errori diagnostici – così come per altre condizioni patologiche – ma l’errore non può certo essere la dimostrazione che l’ADHD non esista. Non si può nemmeno usarlo per sostenere posizioni tra il complottismo e il negazionismo. Quali sono le difficoltà diagnostiche e perché?
«Per l’ADHD, come per tutte le patologie psichiatriche, la diagnosi è un punto critico. Sia come correttezza, sia come possibilità di rilevare l’eventuale errore. Poi, ovviamente, per la terapia. È molto difficile rilevare un errore diagnostico. Nel caso della diagnosi di diabete sarebbe più facile: prendo il sangue ora, trovo un valore di zucchero alto – magari il soggetto ha appena mangiato un gelato – e allora diagnostico il diabete, prescrivo l’insulina. Quell’errore è abbastanza facile da trovare e da rimediare. Rifaccio l’esame. Per una diagnosi psichiatrica invece è più complesso: la diagnosi è clinica, cioè si basa su quello che il medico rileva, ha margini di interpretazione diversi dal caso precedente. Ogni 6 mesi si fa il piano terapeutico. Si rifanno tutti gli esami diagnostici. Ma se dopo 6 mesi troviamo un quadro migliorato possiamo stabilire che la prima diagnosi fosse un errore? Magari è cambiato qualcosa per altre ragioni, magari è un effetto della terapia. Negli Stati Uniti è stimato che ci sia circa un 50% di errore, ma ciò è dovuto al fatto che tutti fanno diagnosi, anche gli infermieri. Il rischio di errore è perciò molto alto. In Italia ci dev’essere il neuropsichiatra infantile, serve un doppio livello diagnostico. Abbiamo stretto le maglie il più possibile. Questo, d’altra parte, può causare una difficoltà di accesso ai farmaci. Il rischio che stiamo correndo è il sottotrattamento».

«Un bambino con l'ADHD non è Gianburrasca↕»
«Un bambino con l’ADHD non è Gianburrasca↕»

Quali sono i rischi di un mancato trattamento?
«Sicuramente un impatto negativo sul rendimento scolastico. Sia se parliamo dell’inizio delle elementari sia più tardi. Al mancato apprendimento vanno aggiunti i problemi di socializzazione: il bambino non lega con gli altri bambini, è violento, è isolato. Non sa giocare, non sa rispettare le regole. Molti insegnanti non sono preparati: l’errore più frequente è di dire al bambino “non ti preoccupare poi te lo ripeto lentamente”. Che è un disastro! Il suo cervello va a mille, non devi andare piano. Per lui tutto il mondo va piano, troppo piano. Carl Friedrich Gauss, per esempio, racconta che quando andava a scuola il maestro cercava di seguirlo, ma andava talmente piano che lasciava perdere. Gli effetti riguardano profondamente anche le famiglie. Può accadere che nessuno ti inviti più a pranzo o alle feste perché “quel loro figlio è così strano”. L’isolamento individuale del bambino con ADHD si somma a quello della famiglia. L’effetto non può che essere esasperazione e logoramento».
C’è un’ulteriore complicazione diagnostica: l’ADHD esiste spesso in comorbidità con altri disturbi.
«I 2/3 dei casi sono in comorbidità: disturbo ossessivo compulsivo o autismo. La diagnosi differenziale serve a stabilire con cosa abbiamo a che fare. Un controllo che si fa spesso è la funzionalità tiroidea. La comorbidità complica naturalmente il quadro e la diagnosi».
Una volta fatta la diagnosi, qual è la terapia?
«In casi non gravi, si comincia con una terapia cognitivo-comportamentale. Se invece il quadro clinico è più severo è necessario ricorrere ai farmaci. La nostra indicazione è: provare con la terapia comportamentale, se non funziona o funziona poco, valutare l’approccio farmacologico. In aggiunta e non in sostituzione. A volte è necessario per permetterti di trattare il bambino. Se il bambino non ha nemmeno 20 secondi di attenzione, la terapia comportamentale non serve a nulla. Devi garantirti un minimo di attenzione indotta farmacologicamente per poter avviare la terapia. I farmaci devono essere prescritti non dal pediatra ma dal centro di riferimento territoriale».
Come mai c’è questa paura della farmacologia? Come mai il rischio del non trattamento spesso non è altrettanto spaventoso?
«Intanto l’ADHD non è un bambino vivace o con l’argento vivo addosso, non è Gianburrasca. Il bambino è sofferente, sta male. Più che paura del farmaco – che poi se ci fosse un po’ più di paura degli antibiotici… – direi degli psicofarmaci. È diffusa l’equiparazione tra psicofarmaci e droga. Dall’altro estremo c’è la percezione illusoria di poter liquidare il problema con un po’ di pillole. Ci sono anche ragioni economiche: negli USA una confezione da 30 compresse di Ritalin costa 5 dollari, un’ora di terapia può costare centinaia di dollari. L’assicurazione non ti rimborsa costose ore di psicoterapia, e sceglie la via più economica».
Altri link. Registro e centri regionali di riferimento, il Telefono verde, il Progetto prisma (2002), i nuovi criteri del DSM V.

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