«Ogni aborto è una ferita che non si rimargina mai»

di Chiara Lalli

Pubblicato il 2014-12-04

Ogni donna che sceglie di abortire è condannata alla sindrome post abortiva (SPA). Davvero? Queste storie, fatte di autodiagnosi e di profili nebbiosi, sarebbero la prova che la SPA esiste e affligge tutte le donne. Ognuno può decidere, anche con queste poche informazioni, se crederci oppure no.

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L’orrenda verità sulla sindrome post-abortiva: la testimonianza delle donne reali che hanno abortito i loro bambini (The Ugly Truth of Post-Abortion Syndrome: Testimony from Real Women Who Aborted their Babies, Breitbart, 3 dicembre 2014, tutto in maiuscolo). Si intitola più o meno così un pezzo che dovrebbe dirci come stanno davvero le cose. Ovvero, che esiste una sindrome che colpisce ogni donna che decide di abortire. Che qualsiasi donna, in fondo, non può davvero scegliere, non in senso forte, di abortire perché l’aborto è un’amputazione, un dolore autoinflitto, una ferita che non si rimargina e che pagheremo per tutta la vita. Il pezzo comincia rimandando a un lungo articolo del 2007 di Emily Bazelon sul New York Times (un pezzo da manuale, leggere per imparare). In Is There a Post-Abortion Syndrome? Bazelon esclude che vi siano evidenze scientifiche a sostegno dell’aumento di depressione o di altre psicopatologie a seguito di un aborto volontario (non è che sia Bazelon a escluderlo, ma inferisce correttamente da studi e indagini al riguardo). Bazelon racconta anche la storia di Rhonda Arias.
La verità sulla SPA
LA SOFFERENZA NECESSARIA DI OGNI ABORTO
La credenza che l’aborto sia sempre e necessariamente un dramma è radicata più o meno quanto quella che la sofferenza ci migliorerebbe, che l’espiazione possa diventare una specie di consolazione. Il prezzo da pagare è la colpa eterna. Come scriveva Ophelia Benson (Belief is about truth, not feelings, The Guardian, 6 agosto 2010): «L’idea che le avversità ci migliorino sembra una razionalizzazione di un’antica e superstiziosa paura che troppo benessere possa innescare l’opposto. […] Rinuncio a mangiare cioccolata per un mese e gli dei non mi faranno cadere in testa un asteroide. […] La realtà è che la sofferenza è solo qualcosa che accade, una conseguenza dell’essere un organismo con nervi e cervello. Ci esercitiamo in stupide forme di sofferenza nella vana speranza che questo ci renda la realtà più tollerabile. Non accadrà».

Abortion is murder
Abortion is murder

DRAMMA INCONSOLABILE O DIVERTIMENTO
Prima di tornare alla presunta dimostrazione che la SPA esista, chiariamo che se avete pensato «ma allora abortire è bello?!» siete inciampati in una ennesima fallacia. Le alternative non sono certo dramma inconsolabile e festeggiamento appena uscite dal reparto, ma la possibilità di molte diverse reazioni. Possibilità, però, che dovrebbero muoversi (possibilmente) nel confini tracciati da osservazioni non oppresse da convinzioni aprioristiche. La sindrome post abortiva è davvero molto difficile da sostenere con argomenti diversi da «l’aborto è un omicidio e se non ti senti in colpa per aver ucciso tuo figlio sei un mostro tu, mica noi!». Il primo sintomo che la SPA sia un marchingegno per sostenere la colpa sta nell’analogia con la sindrome post traumatica da stress (SPTS). Nessuno afferma che chiunque abbia subito uno stress sviluppa la sindrome post traumatica. Qualcuno sì, qualcuno no. Nel caso della SPA, magicamente, tutte le donne ce l’hanno (escluse le anafettive o peggio, quelle da mettere in prigione o da curare).
#TeamLife
#TeamLife

LA STORIA DI RHONDA ARIAS
Quanto racconta Arias può, forse meglio di asettiche indagini e dati, farci capire cosa c’è che non funziona nell’inferenza «Arias ha abortito, allora Arias sta male a causa dell’aborto, ha la SPA». Arias ha 53 anni, da 15 fa counseling a donne che hanno abortito. Ha avuto una rivelazione da parte di Dio: la sua sofferenza e la sua infelicità derivano dall’aborto effettuato nel 1973 (è l’anno di Roe vs Wade). Parola di Dio, quale migliore prova? Dopo l’aborto ha pensieri crudeli e potenzialmente violenti verso i bambini. Passano 10 anni e Arias è di nuovo incinta. Decide di portare avanti la gravidanza ma al quarto mese cambia idea, spaventata all’idea di crescere un figlio da sola. Non è irrilevante specificare le modalità di questo secondo aborto, praticato durante il secondo trimestre della gravidanza. Uno dei metodi per indurre l’aborto consisteva nell’iniettare una soluzione salina nell’utero dopo avere aspirato il liquido amniotico (second-trimester saline abortion). A parte gli effetti collaterali, che hanno portato i medici a non usare più questi metodi, quanto pesa la conflittualità della decisione di Rhonda sulla sua presunta SPA?
In memoriam, at long last
In memoriam

 
«HO UCCISO IL MIO BAMBINO»
Arias dice di essersi svegliata dall’anestesia con la certezza di avere ucciso il suo bambino, convinta di essere scivolata in anni di depressione, alcol e cocaina a causa di quel peccato originale. Ha tentato anche di uccidersi. Fin da questi primi e scarsi dettagli della storia di Arias emerge un dubbio: sarà mica che l’aborto del 1973 c’entra ben poco con il dolore e con la sofferenza della donna? Come scrivevo in A. La verità, vi prego, sull’aborto, considerare l’interruzione di gravidanza del 1973 la causa della depressione di Arias è un processo ingenuo e rischioso: la connessione di causa-effetto viene stravolta e piegata agli interessi della tesi che si vuole dimostrare. Gli errori argomentativi e inferenziali sono molteplici e la conclusione assolutamente insostenibile. Non è affatto possibile dimostrare la sindrome post-abortiva poggiando su «prove» di questo tipo. Questo non significa che Arias non abbia sofferto, ma che la sua sofferenza ha altre radici e spiegazioni molto diverse da quelle che lei presenta. E, forse, anche una soluzione che nel caso della sindrome post-abortiva rischia di non esistere. In effetti il problema di come si possa porre rimedio alla sindrome post-abortiva è abbastanza complesso. Dimenticare? Espiare?
Stop Abortion NOW!
Stop Abortion NOW!

 
IL SECONDO ABORTO
Alcool, droga, relazioni finite male, un tentato suicidio e altri due aborti. Tutto questo, nella mente di Arias, è sempre la conseguenza del suo peccato originale. Dagli anni Novanta combatte per convincere le donne a non abortire. Perché non ha alcun dubbio: le conseguenze di un aborto sono devastanti, e lei ne sarebbe la dimostrazione. Questa plateale e scomposta autodiagnosi non può certo dirci nulla più del fatto che Arias non sta bene. Arias propone un argomento bizzarro: secondo lei c’è una profonda differenza tra l’aborto e tutte le altre esperienze che ha vissuto (oltre a quelle già nominate si aggiungono un abuso sessuale da parte del patrigno quando era bambina; uno da parte di un ragazzo quando aveva 14 anni e una conseguente gravidanza e nascita di una bambina, poi data in adozione). Può espiare l’aborto, ma non le altre disavventure. Per quale ragione non è chiaro. Per Arias è una verità incontrovertibile e assoluta, tanto che la sua attività non si limita al cercare di dissuadere le donne. Per il bene delle donne l’aborto dovrebbe essere illegale. La crociata contro l’aborto, secondo Arias, dovrebbe spostarsi dalla difesa degli unborn children alla dimostrazione degli effetti devastanti sulla donna. Il ragionamento sarebbe: siccome abortire è necessariamente e universalmente contrario agli interessi della donna, allora bisogna rendere illegale l’aborto. Bisogna salvare le donne da loro stesse. Le voci delle donne che avrebbero sofferto per la sindrome post-abortiva sarebbero armi potenti nel muovere a compassione il legislatore, condotto sulla via di un paternalismo traballante. Se il paternalismo è già odioso, quando poggia su ragioni tanto deboli e incerte diventa ripugnante. Non si può non pensare, per esempio, che le risorse investite per cambiare la legge potrebbero essere investite per aiutare quelle donne che non hanno sostegni sociali e materiali e che desidererebbero portare avanti la gravidanza.
Her blood is on YOUR hands!!!
Her blood is on YOUR hands!!!

 
LA VERITÀ SULLA SPA
La pretesa dimostrazione della SPA si muove sempre allo stesso modo: il racconto del dolore, la conclusione che è per forza così e che la causa è, ovviamente, l’aborto. Ed è così che fa Thomas D. Williams nel pezzo da cui sono partita. Jewels Green lavora in una clinica dove si eseguono aborti e abortisce nel 1989 a quasi dieci settimane di gestazione. All’inizio tutto bene, poi comincia a vedere «il suo bambino perduto in ogni contenitore di pezzi di bambini abortiti». Ha incubi spaventosi. Si licenzia. Abby Johnson, poi fondatrice di un gruppo prolife, abortisce due volte. Una volta in macchina la figlia le chiede se conoscerà i fratelli in cielo. Si riferisce ai due aborti. Dice «mi mancano». Non è forse la prova di qualcosa? Lori Nerad ha «partorito» la testa del «suo bambino» abortito due settimane prima. Si sveglia ancora pensando di sentire il pianto di un bambino. Ha incubi di membra infantili fatte a pezzi. Katrina Fernandez dice «ho ucciso i miei due figli, ho privato i miei genitori dei nipoti, ucciso i fratelli di mio figlio». Queste storie, fatte di autodiagnosi e di profili nebbiosi, sarebbero la prova che la SPA esiste e affligge tutte le donne. Ognuno può decidere, anche con queste poche informazioni, se crederci oppure no.

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