Abortire per fiction

di Chiara Lalli

Pubblicato il 2014-07-30

Cristina Yang si accorge di essere incinta di 6 settimane. Patty vuole abortire per la “seconda volta”: i casi di Private Practice e Grey’s Anatomy raccontano l’approccio delle serie televisive all’interruzione di gravidanza. In alcuni casi rivoluzionario. E in altri molto più conservatore. Una narrazione amputata? (Un capitolo del libro “A. La verità, vi prego, sull’aborto” e il settimo episodio della fiction)

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“Vorrei desiderare un figlio. Lo vorrei così tanto, perché in questo modo sarebbe facile. Sarei felice. Avrei Owen, e la mia vita non farebbe tanto schifo. Ma non lo voglio. Non voglio un figlio. Davvero, davvero non voglio essere madre”.

È la fine della settima stagione di Grey’s Anatomy (“Unaccompanied Minor”, stagione 7, episodio 22), Cristina Yang si accorge di essere incinta di 6 settimane. Lo dice al marito, Owen Hunt, e gli dice anche che ha deciso di abortire. Nel primo dialogo e in quelli seguenti, anche con l’amica del cuore Meredith Grey, Cristina non ha vie di fuga e non prende scorciatoie, non ha ripensamenti, non è salvata da un aborto spontaneo, non cade dalle scale. Questo non significa che la scelta di Cristina non sia sofferta e conflittuale, ma che non è dissolta in una facile e illusoria soluzione deresponsabilizzante e che è la scelta migliore per Cristina. È un caso quasi unico nella fiction e in generale nell’attuale narrazione dell’aborto. “I don’t want to be a mother.” [pullquote align=right]La volta precedente la gravidanza di Cristina era ectopica, cioè senza futuro e destinata a interrompersi[/pullquote] (Scrive Guia Soncini in “Zero sensi di colpa”, D di Repubblica, 22 ottobre 2012: “Siamo talmente abituate a pensare che non sia una scelta televisivamente spendibile, il decidere che l’embrione contenuto dal tuo utero non diverrà un feto e poi un figlio, che la lucidità, la determinazione, la sensatezza, la consapevolezza dei propri limiti e dei propri desideri di Cristina Yang ci sembrano rivoluzionarie. Siamo abituate così male che ci aspetteremmo che un aborto televisivo, in una fiction, anche se viene da un’autrice che è una militante pro-choice, fosse fatto come una deputata di sinistra farebbe il proprio intervento a un talk-show: condito di ‘a me per fortuna non è mai capitato’ e di ‘comunque per una donna è sempre una scelta dolorosa e traumatica’. Invece Cristina no”).

L’ABORTO NELLE SERIE TV
Lo sviluppo del feto non interessa a chi considera sacro l’organismo fin dai primi stadi di sviluppo. Non era la prima gravidanza per Cristina e nemmeno per Shonda Rhimes e gli autori della serie tv Grey’s Anatomy e di Private Practice, spin off della prima. La volta precedente la gravidanza di Cristina era ectopica, cioè senza futuro e destinata a interrompersi – ma, come racconta la stessa Rhimes (“You know, in the first season of Grey’s when Cristina Yang got pregnant, my intention — having never worked in television before — was that she was gonna have an abortion”, Wylla Paskin, Shonda Rhimes on Grey’s Anatomy’s Recent Abortion Story Line, Vulture, 27 settembre 2011), non costruita per essere un’alternativa all’aborto spontaneo, come deus ex machina. Nell’episodio “God Bless the Child” (Private Practice, stagione 4, episodio 21) Patty, 19 anni, arriva alla Oceanside Wellness Centre con crampi e dolori addominali. Un mese prima aveva abortito, ma oggi Addison Montgomery si accorge che l’intervento è fallito e che la ragazza è ancora incinta. La gravidanza è di 19 settimane. Ancora in tempo per interromperla legalmente, ma con un quadro clinico e morale più complicato: con l’avanzare della gravidanza aumenta il rischio di complicazioni durante l’intervento e si intensifica la controversia morale. (Lo sviluppo del feto non interessa a chi considera sacro l’organismo fin dai primi stadi di sviluppo. È invece una variabile moralmente rilevante per chi crede che l’embrione acquisisca gradualmente quelle caratteristiche tali da considerarlo detentore di alcuni diritti. Come è rilevante la presenza di un sistema nervoso centrale, la capacità di provare dolore e piacere e così via. Anche sul piano emotivo il grado di sviluppo fetale sembra contare: una ecografia a 3 settimane di gestazione ci provocherà, verosimilmente, reazioni diverse da una ecografia a 19 settimane – quando possiamo vedere una morfologia delineata invece che un grumo grigiastro e indefinito. Sull’effetto e sulle conseguenze del vedere l’embrione e sull’impatto delle attuali tecnologie diagnostiche si veda Claudia Pancino e Jean d’Yvoire, Formato nel segreto. Nascituri e feti fra immagini e immaginario dal XVI al XXI secolo, Carocci, Roma, 2006.)

LA SECONDA VOLTA DI PATTY
L’equivalenza tra il feto di 19 settimane e la nipote di un anno è razionalmente infondata ma emotivamente potente. Patty vuole abortire per la “seconda volta”, ma se la deve vedere con Naomi Bennett, una delle altre dottoresse della clinica che incarna le ragioni di condanna assoluta e anche alcune tipiche strategie antiabortiste. Naomi Bennet raggiunge Patty nella sala d’attesa e tenendo in braccio la nipote di un anno, nata dalla figlia sedicenne, cerca di convincere Patty a non abortire con un miscuglio ben ponderato di emotività e condanna. Alla prima obiezione di Patty di non essere pronta ad avere un figlio risponde (Martha Kempner, Private Practice and Public Laws: The Patronizing Lectures that Television Depicts and Texas Now Requires, RH Reality Check, 23 maggio 2011): “Nessuno è mai pronto ad avere un figlio. Devi solo farlo. Mia figlia aveva 16 anni quando è rimasta incinta di Olivia, non aveva nemmeno finito la scuola e io ho quasi, no, ho proprio provato a costringerla ad abortire e sono così felice che non lo abbia fatto.” (Guarda amorevolmente la nipote). Quando Patty insiste, dice che non ha nulla e non può permettersi di crescere un figlio da sola, Naomi incalza: “Essere una madre non riguarda ciò che hai, ma ciò che sei”. L’equivalenza tra il feto di 19 settimane e la nipote di un anno è razionalmente infondata ma emotivamente potente. L’effetto è tanto più efficace se ha come alleati la vergogna e il senso di colpa. Risponde agli stessi meccanismi della retorica pro-life (leggi no-choice), delle bambole trascinate davanti alle cliniche o dei volantini contro l’aborto, la cui iconografia elimina le differenze tra embrioni e feti, ritoccando le foto dei feti di alcuni mesi per renderli il più possibile simili a un piccolo bambino. (Una delle immagini usate da “Scienza e Vita” durante il referendum sulla legge 40 era un neonato in miniatura infilato in una provetta. Le reazioni di fronte a un bambino sono ben diverse da quelle di fronte a un embrione di pochi giorni (informe e non immediatamente riconoscibile). È la stessa strategia che soggiace all’uso dell’espressione unborn child – l’immagine è ovviamente più potente dell’arma terminologica). O della protesta organizzata dall’associazione “Ora et Labora in Difesa della Vita” nel settembre 2011 davanti all’ospedale Sant’Anna di Torino: una croce su cui erano incastonati decine di feti di plastica (Sara Strippoli, “Torino, sit-in degli antiabortisti all’ospedale della pillola Ru486”, la Repubblica, 5 settembre 2011. Qui la videointervista a Giorgio Celsi, protagonista della manifestazione. Un altro presidio di preghiera e di volantinaggio si è svolto il 7 maggio 2012 oppure ogni martedì) e volantini contro l’aborto e la RU486, definita la “pillola di Erode” e il “pesticida umano” e somministrata in “pieno inverno demografico”.

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“God Bless the Child”, Private Practice, stagione 4, episodio 21

LE DONNE CHE ABORTISCONO SONO ASSASSINE
La decisione di abortire da parte di Cristina è abbastanza solitaria nel mondo narrativo[/pullquote]Alcuni difensori della vita sono coerenti con le loro premesse: “Le donne che abortiscono sono assassine, è un omicidio vero e proprio, le donne che non sanno affrontare la gravidanza devono essere rinchiuse. […] per le donne che non vogliono un figlio ci sono le comunità dove poter lasciare i neonati. Per le ragazzine i manicomi, devono essere rinchiuse in strutture di igiene mentale. Assassine, assassine” (Maria viene affiancata davanti al Sant’Anna di Torino da alcuni manifestanti pro-life; durante la Marcia per la vita alcuni dei cori insistono sulla punizione esemplare per chi ha deciso di interrompere una gravidanza: “almeno il carcere”). La decisione di abortire da parte di Cristina è abbastanza solitaria nel mondo narrativo, anche se verosimilmente molte donne hanno deciso di interrompere una gravidanza per ragioni simili alle sue, senza cercare la scappatoia di scuse esterne, ma analizzando lucidamente un non desiderio. L’azione temporale si svolge nell’arco di tre episodi: il ventiduesimo della settima stagione (“Unaccompanied Minor”) e i primi due della ottava (“Free Falling” e “She’s Gone”). Cristina non è indifferente – lo dico per prevenire la credenza diffusa che non esista alternativa all’autodistruzione, che non si possa davvero scegliere di abortire e che se lo si decide con convinzione si è prossimi a essere un mostro morale. Cristina non vuole essere madre e il fatto di essere rimasta incinta senza volerlo non la trascina in un mondo in cui all’improvviso rinnegare i suoi desideri. Avrebbe voluto non trovarcisi, ma questo non basta a farle accettare passivamente l’esito di uno sbaglio.
LA SCELTA DI CRISTINA
Owen desiderava quel bambino, voleva essere padre e la frustrazione dei suoi desideri da parte della moglie non è quel dolore necessario che si vuole attribuire a tutti. Questa volta non arriva in soccorso né un difetto fisico, né un ripensamento. I passaggi cruciali dell’evoluzione della scelta di Cristina sono due: quando spiega di non voler essere madre e quando Meredith dice a Owen che un figlio deve essere voluto e non accolto solo perché è capitato. Nel primo caso Cristina mette in dubbio la credenza che ogni donna desidera essere madre, incrina la semplicistica convinzione che il fatto stesso di potersi riprodurre implichi il desiderio di farlo e, ancora di più, costituisca il panorama di tutte le donne. Cristina arriva perfino a formulare un desiderio di secondo livello, rendendo ancora più visibile la mancanza di quello al primo: “Vorrei desiderare un figlio. Vorrei desiderarne uno così tanto, perché così sarebbe facile. Sarei felice. Avrei Owen, e la mia vita non farebbe tanto schifo”. Ma non lo desidera. (Cristina non ha dubbi o ripensamenti sull’aborto nemmeno in seguito. Il suo dolore riguarda il conflitto vissuto con Owen. Nelle successive puntate il rapporto tra i due peggiora, ogni tanto riemerge il fantasma dell’aborto come un’ombra onnipresente. Owen una sera tradisce Cristina e la stagione 8 finisce con la loro separazione. Non è questo però il dolore come destino immutabile: Owen desiderava quel bambino, voleva essere padre e la frustrazione dei suoi desideri da parte della moglie non è quel dolore necessario che si vuole attribuire a tutti. L’aspetto interessante – in una prospettiva in cui un embrione non sia qualcosa di sacro – è la differenza emotiva rispetto a una gravidanza già avviata e una da avviare. Perché nel secondo caso il conflitto è in genere più lieve? Perché di fronte a “qualcosa che è accaduto” non si torna indietro? Volere o no un figlio potrebbe essere un contrasto insanabile anche senza un aborto.)

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Grey’s Anatomy, episodio 7 stagione 2

LE DONNE CHE NON HANNO FIGLI
È moralmente ammissibile far nascere qualcuno che non desideriamo o che non desideriamo abbastanza? È passato il tempo in cui non volere un figlio era considerato un sintomo incontrovertibile di una patologia mentale, ma la convinzione che l’amore materno sia proprio del genere umano femminile (Sull’amore materno come intrinseco e necessario: Elizabeth Badinter, L’amore in più, Fandango, Roma, 2012) resiste ancora. Le donne che non hanno figli sono ancora guardate un po’ di sbieco, e magari è più facile inclinare per il “poverina” se si ipotizza – con più o meno verosimiglianza – che la donna non abbia potuto averne invece che considerare l’ipotesi che non li abbia proprio voluti. Non c’è nemmeno un nome per queste donne che prescinda dal figlio (come assenza, come amputazione), sole brillante del sistema femminile: childless, childfree. È raro che alla dichiarazione: “Non voglio avere figli” non segua il commento: “Per ora, ma poi vedrai”. Il futuro, prossimo o lontano, verosimile o già consumato, è lastricato di desideri inespressi – non ancora espressi, nemmeno a se stesse – di moltiplicarsi. Non è permesso credere davvero che una donna possa non desiderare un figlio. Ci dev’essere qualcosa sotto. Un impedimento di qualche tipo o, almeno, un dolore tanto profondo da avere mutato aspetto per diventare rifiuto, ma in realtà è paura. Un meccanismo perfetto di dimostrazione a priori della propria credenza, poco importa chi abbiamo di fronte. “Vorrei desiderare un figlio.” Nel dialogo tra Meredith e Owen emerge un altro punto trascurato: siccome siamo noi a decidere di fare un figlio dobbiamo essere noi a chiederci cosa gli offriremo. È moralmente ammissibile far nascere qualcuno che non desideriamo o che non desideriamo abbastanza? (In Why to Have Children?, Mit Press, Cambridge, 2012, la filosofa canadese Christine Overall analizza l’ammissibilità morale del fare figli. “Egoismo” è qui usato in senso tecnico, senza accezioni negative: sono io che scelgo di avere un figlio, oltre a scegliere quando e come, e non posso chiedere il consenso al diretto interessato. Quando sarà in grado di acconsentire o di declinare l’offerta di esistere, il suo diritto di non esistere sarà già stato irrimediabilmente violato. Siamo poco abituati a farci domande del genere e le reazioni sono spesso fuori fuoco e istintivamente aggressive. Quando ho scritto un articolo sul libro di Overall (Avere figli per egoismo, Il Corriere della Sera, 13 maggio 2012) la maggior parte dei commenti è stata: “Egoismo?, fare figli è un atto d’amore”. È come mettere giù il telefono mentre dall’altra parte si sta ancora nel mezzo di una conversazione. (Nessuno mette più giù il telefono, ma chiudiamo la conversazione con un tasto.)

ZERO SENSI DI COLPA
Non raccontare la scelta di non essere madre e di abortire avrebbe portato a una narrazione amputata.Un altro muro di gomma: l’egoismo del fare figli è ignorato e l’esistenza è considerata a priori preferibile alla non esistenza. Con queste premesse il punto sollevato da Meredith rimane muto. “Il senso di colpa di rifiutare il proprio figlio l’avrebbe mangiata viva!”. La scelta di Cristina Yang, nel mondo distratto e incline a rimuovere l’aborto, appare provocatoria, forse estrema. È proprio Shonda Rhimes (Wylla Paskin, Shonda Rhimes on Grey’s Anatomy’s Recent Abortion Story Line, Vulture, 27 settembre 2011) a mettere in luce perché Cristina non avrebbe potuto e dovuto scegliere diversamente e perché è importante raccontare tutta la realtà, senza asportare la parte che ci fa sentire scomodi, o che non ci piace. “È interessante perché è vero. Ho la sensazione che non accada spesso e non se ne parla e questo è ridicolo perché è una scelta legale nel nostro Paese.” Rhimes aggiunge che voleva raccontare onestamente Cristina Yang, e il desiderio di diventare madre sarebbe sembrato un tradimento (“I think for me the point is it’s a painful choice that a lot of women have made in their lives and we just wanted to portray it honestly and with a really good conversation that I think started in the season finale and carries over in this episode. And see what happens after”). Altri personaggi incarnano altri punti di vista – Naomi quello antichoice – e tutti loro ricostruiscono un mondo. Non raccontare la scelta di non essere madre e di abortire avrebbe portato a una narrazione amputata. La stampa statunitense apprezza il racconto insolito, nonostante alcune eccezioni fortemente connotate come prolife. Che cosa succede qui? Cercando su Google si trova, in ordine, il pezzo di Guia Soncini già citato (“Zero sensi di colpa”, D di Repubblica, 22 ottobre 2011): “Cristina Yang è un’ambiziosissima chirurga. Non ha intenzione di avere figli, vuole fare un mestiere di quelli che ti occupano un numero di ore al giorno e di energie vitali tali da non lasciarti il tempo e le forze di preparare merende e aiutare coi compiti. Cristina Yang resta incinta per sbaglio. Cristina Yang abortisce senza dubbi e senza sensi di colpa. Cristina Yang non sarebbe una notizia, nel mondo reale. Lo è alla tv”. [E ancora:] “Quel che conta, e che mi manda al manicomio, è che dipin
gere una cosa semplice come “Sono incinta. Non voglio essere incinta. Non lo sono più” come un immane abisso nel quale tutte noi ci gettiamo solo in preda alla disperazione più nera e dal quale facciamo di tutto ma proprio di tutto per tenerci lontane è di un paternalismo che manco Sarah Palin, di una falsità che manco Giuliano Ferrara, di una stupidità tecnica che manco Beppe Grillo. Un giorno qualcuno mi darà una spiegazione sensata del perché la 194 sia l’unica legge del cui utilizzo ci si scusa e i cui difensori premettono a ogni sua difesa la promessa solenne di usarla pochissimissimo e dispiacendosi moltissimissimo parola di bambina buona che ha studiato dalle suore”.

LE DONNE DI SINISTRA
Tra gli argomenti sui quali “non è moralmente ammissibile scherzare”, l’aborto è ben piazzato.“Fino ad allora, questo atteggiamento delle donne di sinistra che lasciateci abortire e vi promettiamo che ne saremo tanto contrite continuerà a sembrarmi quasi peggio del narcisismo di quelli che si ricavano il loro spazio in tv e nei ricevimenti dei vescovi fingendo di avere a cuore le sorti degli embrioni” (Tu dimmi se nel 2010 bisogna ancora star qui a precisare, www.guiasoncini.com, 28 gennaio 2010). Non solo Soncini scrive di aborto, ma si permette anche di scherzarci: “E infine, una sera alla fine di una dieta, al terzo dei tuoi primi tre alcolici dopo un periodo in cui hai disimparato a metabolizzare l’alcol, a una cena tra adulti, si parla delle canzoni di un certo anno, e uno con cui avevi fino a quel momento conversato alla pari dice che lui è nato quell’anno lì e tu dici uh, sei nato l’anno del mio primo aborto, che cosa tenera, e a quel punto in genere qualcuno ti chiama un taxi” (Invecchiare con malagrazia, ibid., 3 aprile 2012). Tra gli argomenti sui quali “non è moralmente ammissibile scherzare”, l’aborto è ben piazzato. E poi basta. Se si fa eccezione per “La bussola quotidiana” (Tommaso Scandroglio, “Grey’s Anatomy, l’aborto in tv”, 1 dicembre 2011), il blog “Ascolta tua madre” (“Famiglia. Se l’aborto diventa una scelta come tante altre”, 10 novembre 2011, che riprende il pezzo da Corrispondenza Romana) e “Scienza e Vita” che riprende il primo, che uniscono le loro voci per dire che si è banalizzato l’aborto trasformandolo in un evento come tanti altri. Un sito che si chiama “Grey’s Anatomy Italia” riporta sciattamente due risposte di Shonda Rhimes e poi il silenzio – così ci dimentichiamo presto di Cristina Yang e possiamo starcene seduti comodamente a guardare la narrazione amputata dell’aborto.
(Da A. La verità, vi prego, sull’aborto, Fandango, 2013)

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