Marione, il vignettista grillino che non distingue cinesi e giapponesi

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2019-03-26

Preso dall’entusiasmo per lo “storico” accordo commerciale che consentirà di esportare arance siciliane in Cina l’araldo del verbo pentastellato commette un errore madornale (ma resta umile)

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Come tutti sanno Luigi Di Maio è riuscito nella storica impresa di riaprire (da solo!) la Via della Seta con la spedizione di un succoso carico di arance rosse di Sicilia a Pechino. La notizia non è passata inosservata perché il governo ha dedicato all’argomento pagine e pagine di trionfante propaganda. Ma anche se vi fosse sfuggito allora ci pensa Marione, ovvero Mario Improta, a farvi capire cosa è successo davvero nella mente dei sostenitori del MoVimento 5 Stelle.

Il senso di Marione per gli stereotipi

La sintesi è tutta in una vignetta. Al solito l’Italia è rappresentata da una donna con il culo di Kim Kardashian e i capelli di Virginia Raggi avvolta nel Tricolore. Dietro di lei – ritratte nell’atto di rosicare dall’invidia – una nanetta bionda in ciabatte (la Germania) e una Francia un po’ anoressica con le labbra a canotto. Francia e Germania messe in ombra dall’Italia, non più italietta, che stringe accordi alla pari con la Cina di Xi Jinping. Questa è la visione dell’accordo sulle arance spiegato “ai piùeuropeini, agli euroinomani, agli economioni e a tutti gli altri individui con evidenti carenze intellettive”.

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L’accordo però tanto alla pari non è. Perché se per poter esportare qualche quintale di arance in Cina – uno dei principali paesi produttori di agrumi – bisogna sottoscrivere un memorandum d’intesa sulla Nuova Via della Seta evidentemente la contropartita è un’altra. Nel frattempo la francesina, quella in terzo piano, senza prendere impegni di sorta sulla Belt and Road Initiative di Pechino ha venduto 300 Airbus e stipulato accordi commerciali con la Cina per 30 miliardi di euro.

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Marione, si sa, è un vignettista che vive di stereotipi. Ma il problema di quella vignetta non sono solo le balle che racconta. C’è ad esempio la questione del modo scelto per rappresentare la Cina. Per molti infatti risulta evidente come la Cina sia in realtà disegnata con un abito tradizionale giapponese, lo yukata, e rappresentata come una geisha (giapponese). Eppure lo hanfu, l’abito tradizionale Han, è leggermente (ma significativamente diverso). A sua volta lo hanfu non è nemmeno da considerarsi l’abito tradizionale cinese (semmai quello della dinastia Han). Pensarlo è ignorare la storia della Cina. Qualcuno è anche andato a spiegarglielo. Ma Improta però risponde che basta cercare su Google per rendersi conto che ha ragione lui è che “è solo un caso” che il vestito cinese assomigli al kimono giapponese.

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In realtà non è “solo un caso” (dal punto di vista storico) e qualche somiglianza c’è, ma non basta dire che si assomigliano per dire che sono sostanzialmente la stessa cosa e quindi disegnare una figura in kimono per dire che è “cinese”. Anche perché le relazioni tra Cina e Giappone sono storicamente “travagliate”, non serve certo ricordare a Marione i massacri perpetrati dai giapponesi durante l’occupazione avvenuta nella Seconda Guerra mondiale. E il fatto che i cinesi siano – giustamente – offesi dalle generalizzazioni e dagli stereotipi (è pur sempre un Paese dove convivono centinaia di etnie) lo ricorda anche la recente polemica sullo spot di Dolce e Gabbana. Il punto però è un altro, quel vestito “cinese” non rappresenta la tradizione cinese.

Leggi sull’argomento: Le balle di Laura Castelli sulle sanzioni europee per l’IVA sugli assorbenti

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