Barbara Lezzi a processo per diffamazione invoca l’insindacabilità

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2019-05-28

Capita a tutti di essere querelati per diffamazione. Per un normale cittadino l’alternativa è quella di difendersi nel processo. Per un membro del Parlamento invece c’è la scappatoia dell’articolo 68 della Costituzione che dice che senatori e deputati non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. E così dopo il rinvio a giudizio la Lezzi ha deciso che era il momento buono per far valere i suoi diritti.

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«Il Movimento 5 Stelle è sempre stato di un’opinione, che è meglio difendersi non ostacolare quello che è il corso della magistratura aggrappandosi all’immunità parlamentare». Così parlava il 28 gennaio 2019 ad Agorà la Ministro del Sud Barbara Lezzi. Il tema era quello dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini per il “caso Diciotti“. Come è noto il M5S ha deciso di salvare il ministro dell’Interno ma questo – ripetevano ovunque i pentastellati – non cambiava nulla perché i valori del MoVimento rimanevano gli stessi.

Quando la Lezzi diceva che era meglio difendersi e non ostacolare il corso della magistratura

Le cose però sono un po’ diverse da come le raccontava la ministra. Perché proprio la Lezzi è stata querelata per diffamazione da un ex attivista del MoVimento 5 Stelle. Naturalmente la vicenda non ha nulla a che vedere con quella di Salvini né tanto meno con il “caso Siri”. Infine, in base al Codice Etico del M5S, i cosiddetti reati d’opinione (come appunto la diffamazione) godono di un trattamento diverso. Fatte queste premesse torniamo alla storia della ministra Lezzi querelata. La vicenda inizia nel 2016 quando Massimo Potenza, attivista del M5S, decise di querelare l’allora senatrice Lezzi per alcune frasi pronunciate durante un incontro con gli iscritti. Quell’incontro era una delle cosiddette “graticole”, ovvero quelle specie di “processi” con cui gli elettori del MoVimento mettevano alla prova le capacità dei candidati e dei portavoce.

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Durante quella riunione – che venne registrata – la senatrice Lezzi parlando di Potenza avrebbe pronunciato frasi che l’ex attivista ha ritenuto diffamatorie. Dopo la fase di indagine il PM ha deciso di procedere in giudizio contro la Lezzi, che nel frattempo era diventata ministro. Ed è qui che iniziano i problemi. Perché la ministra non si è mai presentata, giustificandosi con il legittimo impedimento. Per questo motivo il giudice di pace non ha mai potuto aprire il dibattimento.

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Il 26 marzo scorso l’avvocato difensore della ministra ha rilevato l’insindacabilità in base all’articolo 68 della Costituzione, quello che sancisce che «i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni» chiedendo di prosciogliere l’imputata perché il fatto non costituisce reato o in alternativa di inviare gli atti alla Giunta per le Autorizzazioni a Procedere del Senato che dovrà decidere sulla sussistenza dell’insindacabilità delle opinioni espresse dalla Lezzi in quella che era una riunione interna al partito. Al di là di come proseguirà la vicenda processuale emerge però come la Lezzi stia facendo l’esatto contrario di quello che diceva fosse l’opinione del M5S vale a dire “difendersi nel processo” invece che aggrapparsi all’immunità parlamentare o, in questo caso, all’insindacabilità delle opinioni espresse dai membri della Camera e del Senato nell’esercizio delle loro funzioni. Senza dubbio la ministra ha tutto il diritto di appellarsi all’articolo 68 della Costituzione, e magari verrà riconosciuto che definire “gentaglia” o persona “caratterizzata da infamia, menzogna e insulto” un privato cittadino è lecito se lo si fa da Senatore della Repubblica.  Rimane però il dato: quando Barbara Lezzi viene querelata per diffamazione si nasconde dietro uno dei tanti privilegi della “Casta”.

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