Perché il reddito di cittadinanza sarà un fallimento? Ve lo spiega Di Maio

di Mario Neri

Pubblicato il 2019-03-06

«Prima del reddito di cittadinanza bisogna non riformare ma rifondare i centri per l’impiego. Il primo anno di governo verrà dedicato a questo»: se volete un buon motivo per capire perché il reddito di cittadinanza non avrà la funzione di riportare persone espulse all’interno del mondo del lavoro basta riascoltare la puntata di Porta a …

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«Prima del reddito di cittadinanza bisogna non riformare ma rifondare i centri per l’impiego. Il primo anno di governo verrà dedicato a questo»: se volete un buon motivo per capire perché il reddito di cittadinanza non avrà la funzione di riportare persone espulse all’interno del mondo del lavoro basta riascoltare la puntata di Porta a Porta andata in onda alla vigilia delle elezioni in cui lo stesso Luigi Di Maio diceva che prima di erogare il reddito di cittadinanza si sarebbe dovuto riformare, anzi rifondare i centri per l’impiego. Era il 2 marzo 2018 e la frase fece il giro del web perché preconizzava l’arrivo del reddito di cittadinanza dopo almeno due anni di governo M5S. In realtà il bisministro e vicepremier non dice esattamente così ma fa capire che senza la riforma dei centri per l’impiego il reddito di cittadinanza non funzionerà. E siccome la riforma dei centri per l’impiego non è partita nel 2018 ma sta faticosamente partendo ora con i Navigator per i quali va ancora trovato l’accordo con le Regioni, ecco che è tutto più chiaro.

Ecco quindi che si capisce perfettamente perché Sergio Rizzo su Repubblica dica oggi che il reddito di cittadinanza è già oggi un sussidio e basta:

Il presupposto per fare del reddito di cittadinanza un incentivo all’occupazione era la riforma profonda dei centri per l’impiego. Sono 552 e arrivano a 840 con le sedi distaccate, ma oggi servono più a garantire il lavoro agli 8.189 addetti che a trovarlo ai disoccupati. Il sistema andrebbe ricostruito dalle fondamenta, però l’unico segnale in questa direzione è uno stanziamento pubblico di 900 milioni in due anni: più che dimezzato rispetto ai piani iniziali. E il progetto? Boh… In compenso, vista l’evidente difficoltà dell’impresa e il ritardo nell’affrontarla con la dovuta tempestività, ecco l’assunzione di qualche migliaio di navigator (traduzione italiana: navigatori).

Con quel nome dovrebbero pilotare i sussidiati verso il lavoro, ma di sicuro il primo risultato per l’occupazione sarà quell’ondata di assunzioni con denaro pubblico. Un’ondata che ha già fatto sorgere pure discreti appetiti in alcune società di consulenza pronte a organizzare corsi di formazione per gli aspiranti navigatori. A pagamento, ovviamente. Un’ondata, peraltro, capace di riportare l’Anpal ai fasti del passato, per capirci quelli di Italia lavoro, come si chiamava un tempo l’attuale Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro affidata a Domenico Parisi.

E soprattutto in grado di suscitare una domanda decisamente inevitabile: con tutta la gente già pagata dal pubblico per trovare impiego ai disoccupati, e visti i penosi risultati in gran parte inutilmente, che bisogno c’era di accollarsene altri seimila (tanti dicono che saranno)? Non era più sensato mettere in grado di svolgere correttamente la loro funzione le persone già impiegate, che continueranno così a essere superflue?

Ma il problema è che a maggio ci sono le elezioni. Meglio non presentarsi a mani vuote.

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