Il Brasile degli Stati paralleli e (forse) il caos alle porte

di Francesco Guerra

Pubblicato il 2019-03-25

Il gigante sudamericano sembra essere sprofondato in una campagna elettorale permanente, la quale acuisce la già presente polarizzazione esistente tra destra e sinistra. É come se, a lato del Brasile ufficiale, ne esistesse un altro parallelo

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Le ultime settimane in Brasile sono state connotate da un crescendo di questioni spinose, le quali rischiano di compromettere ulteriormente l’immagine, già ampiamente consunta, del Presidente Jair Bolsonaro. Ciò che, tuttavia, maggiormente preoccupa, non è tanto la tenuta dell’attuale outsider insediato al Palácio da Alvorada, quanto il fatto che il gigante sudamericano sembra essere sprofondato in una campagna elettorale permanente, la quale acuisce la già presente polarizzazione esistente tra destra e sinistra. Contesto, questo, peggiorato dalla sempre più forte impressione della moltiplicazione dei piani di realtà entro cui la vita sembra scorrere in questo Paese. Voglio dire che la riduzione del Brasile ad una questione familiare (vedasi a tal proposito l’omonimo articolo pubblicato su Next Quotidiano poco tempo fa) si porta dietro, a corollario, la scoperta di taluni, specifici, Brasile paralleli. Sebbene il problema delle milizie di poliziotti o ex-poliziotti, soprattutto militari, che infestano Rio de Janeiro, non è cosa che venga alla luce oggi, ciò che sorprende, nell’arresto del presunto assassino della deputata statale Marielle Franco è la vera e propria industria del crimine, che la vita da milionario di Ronnie Lessa – vicino di casa del Presidente Bolsonaro – ha portato definitivamente alla luce. É come se, a lato del Brasile ufficiale, ne esistesse un altro parallelo, nel quale un ex sergente della polizia militare in pensione viene pagato, a peso d’oro, per far fuori persone scomode come Marielle Franco.

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Il Brasile degli Stati paralleli e (forse) il caos alle porte

Uno Stato nello Stato, in altri termini, un disvelamento barbaro e disumano, che rende possibile tutto ciò che in uno Stato di diritto non sarebbe possibile. La stessa cosa potrebbe dirsi per quanto concerne la tanto discussa (e giustamente!) Fondazione Lava Jato, altro argomento che ha tenuto banco, su mass media e social network, nelle ultime settimane. Gli scaltri lavajateiros, con in testa Deltan Dallagnol, attraverso un oscuro accordo col Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e con la Petrobras, avevano pensato bene di auto assegnarsi 2,5 miliardi di reais da investire, appunto, nella succitata Fondazione, la quale, da par suo, li avrebbe investiti in opere a carattere sociale. Questo, almeno, in teoria. Nella pratica l’astuto Dallagnol, che su Twitter si presenta come “seguidor de Jesus”, ma che, in questo caso, non sembra averlo seguito granché, si era pure recato in una filiale dell’istituto bancario Caixa per informarsi su come investire almeno una parte di questo fiume di denaro in prodotti finanziari redditizi. Sul proprio account Twitter il “seguidor de Jesus”, a chi gli chiedeva conto di questa oscura impresa finanziario-giuridica, rispondeva con fare da chierichetto che la Fondazione Lava Jato si sarebbe dedicata ad investire il denaro ricevuto in progetti di carattere sociale (scuole, strade e quanto di più nobile e giusto possiamo immaginare). Il presente teatrino è andato avanti solo poche ore, giusto il tempo, i brasiliani, di uscire dalla caverna e andare incontro alla “luce”. Altro che progetti sociali, i lavajateiros avevano ben altri tipi di propositi, di cui, discernibili, due: usare quel denaro, in parte, per sponsorizzare la candidatura dello stesso Dallagnol alla Procura Generale della Repubblica (posto oggi occupato da quella Raquel Dodge, la quale, pur con estrema “parsimonia”, di tanto in tanto si è messa di mezzo agli arbìtri della Lava Jato) e in parte per finanziare la candidatura di Sérgio Moro alla Presidenza della Repubblica nel 2022.

sergio moro

La Dodge, che pure è stata parte attiva dell’attuale caos politico nel quale il Brasile versa, deve avere subodorato la polpetta avvelenata e, forte di avere dalla sua parte la ragione, in termini giurisprudenziali, si è affrettata a bollare come dannosa l’iniziativa presa dai lavajateiros e perciò del tutto irrealizzabile. A distanza di pochi giorni le ha fatto eco (e che eco!) pure il Supremo Tribunale Federale, in modo particolare il ministro Gilmar Mendes, il quale, in un eccesso di sincerità priva di filtri, ha usato, all’indirizzo di Dallagnol & Co., parole di fuoco quali “idioti” e addirittura “gangster”. Parole e toni del tutto inusuali e senza dubbio errati per un rappresentante della più alta corte di giustizia esistente in questo Paese, ma che, sotto altra prospettiva, restituiscono l’immagine più fedele di quel che è il Brasile di oggi. Un Paese prigioniero di se stesso, dei suoi tic secolari, con un popolo per la gran parte ignorante (in senso etimologico), plagiato dalle reti sociali, con un presidente semplicemente inadeguato per l’incarico che ricopre, oltre ad essere in caduta libera nei sondaggi già da diverse settimane, un stagnazione economica preoccupante e con un potere giudiziario diviso e ogni giorno di più ridotto ad una guerra tra bande, dove ognuno pretende la propria libbra di carne (dell’avversario). Sul fatto che la Fondazione Lava Jato sia un vulnus per qualsivoglia Stato di Diritto non vi è il minimo dubbio, come pure che il Supremo Tribunale Federale rappresenti l’ultimo bastione posto a difesa della democrazia (o almeno di quel che di essa rimane) all’interno del territorio brasiliano. Pertanto, lasciando da parte come questi 2,5 miliardi di reais erano tornati nella disponibilità del Brasile, la totale illegalità della succitata Fondazione appare in tutta la sua evidenza considerando che si trattava di denaro destinato ad essere gestito dallo Stato brasiliano e non da un pugno di procuratori e giudici federali, i quali volevano investirlo in una fondazione, da loro creata, vale a dire in una iniziativa di diritto privato. Denaro pubblico usato per fini privati, dunque. Detto fuor di metafora: una mega tangente pagata dalla Petrobras, visto che i soldi del Dipartimento di Giustizia americano venivano da lì, ai procuratori della task-force della Lava Jato. Di nuovo, come nel caso delle milizie, la Fondazione Lava Jato sarebbe andata a costituire uno Stato nello Stato, un Brasile parallelo a lato di quello ufficiale, ma con l’intento, tramite la collocazione di Moro e Dallagnol rispettivamente alla Presidenza della Repubblica e alla Procura Generale della Repubblica, di mettere le mani anche sul Brasile ufficiale.

La vendetta dei lavajateiros 

Stretti tra la bocciatura della Dodge e le “parole al miele” di Gilmar Mendes, i lavajateiros hanno dovuto ingoiare il rospo, tuttavia certi del fatto che il tempo avrebbe dato loro la possibilità di servire la tanto agognata vendetta. Vendetta, che, non a caso, è arrivata, puntuale, nella giornata del 21 marzo con l’arresto, del tutto a sorpresa, di un altro ex Presidente della Repubblica: Michel Temer. La propaggine carioca (Rio de Janeiro) della Lava Jato, vale a dire il giudice federale Marcelo Bretas, ha pensato bene di mandare ad arrestare Temer, oltre all’ex-ministro Moreira Franco – suocero del Presidente della Camera Rodrigo Maia, il quale, ha seguito di questa decisione, ha, di fatto, aperto una crisi di governo i cui esiti sono tuttora incerti – al fine di assestare un colpo a chi, a vario titolo, dalla Procura Generale della Repubblica fino al Supremo Tribunale Federale, avevano sbarrato la strada alla creazione della Fondazione Lava Jato. A questo punto sorge la domanda dalle mille pistole: perché l’arresto di Temer e Moreira Franco rappresenta, in questo particolare frangente della storia brasiliana, un possibile di punto di non ritorno? Sebbene a questo proposito le ipotesi non manchino, personalmente leggo il presente arresto non solo come una risposta del clan della Lava Jato alla creazione dell’omonima fondazione, ma come l’approfondirsi di una crepa all’interno di quelle élites, in primo luogo giudiziarie e politiche, che, a partire dall’impeachment (ai limiti del ridicolo) contro Dilma Rousseff nel 2016, hanno pesantemente direzionato la vita pubblica brasiliana e condotto, di fatto, all’elezione di Bolsonaro l’anno passato. Michel Temer aveva rappresentato la pietra angolare e uno dei grandi beneficiari di quel processo di impeachment, essendo parte di quelle élites a cui mi sono riferito sopra. In buona sostanza, l’arresto di Temer suona molto come una risposta al ministro del Supremo Tribunale Federale, Gilmar Mendes, in particolare, e al STF in generale. Meno di due settimane fa, infatti, la Suprema Corte, oltre a mettere una pietra tombale sulla Fondazione Lava Jato, si era anche espressa, con riferimento all’assegnazione di casi referentisi a reati di natura elettorale e ad altri, diversi da questi, ma che ad essi fossero collegati, esprimendo parere favorevole, affinché tali crimini non venissero più giudicati da Tribunali di Giustizia federali, ma da istanze superiori di giustizia elettorale, in altre parole dal Superiore Tribunale Elettorale e dai ventisette tribunali regionali elettorali presenti nelle varie capitali dei singoli Stati. La decisione del giudice Marcelo Bretas rimanda, perciò, al più classico degli usi politici della giustizia, non solo per l’assenza di elementi contundenti tali da giustificare un mandato di arresto e detenzione, ma anche per il fatto che, in tale decisione, Bretas specifica che il caso in oggetto non ha nessuna relazione con l’Operazione Calicute, legata alla parte della Lava Jato riguardante Rio de Janeiro, e il cui relatore all’interno del Supremo Tribunale Federale è (vedi un po’ il caso) proprio il ministro Gilmar Mendes. Parimenti, aggiunge Bretas, la nuova Operazione – chiamata Radioatividade – non è in alcun modo riferibile a crimini di natura elettorale, la qual cosa ne avrebbe sanzionato il passaggio da un giudizio federale di primo grado ad un uno elettorale affidato a istanze superiori. Lo scenario che sta prendendo corpo sembra essere, quindi, quello di uno scontro aperto tra lavajateiros, capitanati da Deltan Dallagnol a Curitiba, ma con potenti propaggini anche presso altri tribunali federali di primo grado, quali Rio de Janeiro con Marcelo Bretas, e soprattutto con un Sérgio Moro al Ministero della Giustizia, e un Supremo Tribunale Federale, il quale – sebbene non a torto percepito dalla maggioranza dei brasiliani come una casta di bramini e perennemente sospeso tra esercizio di funzioni giudiziarie e prese di posizione politiche – resta il guardiano ultimo della Costituzione Federale nata sulle ceneri della dittatura militare. Sullo sfondo, infine, un governo di giorno in giorno sempre più debole, attraversato da faide intestine, scandali di corruzione e che ha ormai contro la gran parte delle élites giudiziarie, mass-mediatiche, politiche ed economiche di questo Paese. Quelle stesse élites, giova ricordare, che, per sbarrare la strada ad una quasi certa rielezione dell’ex Presidente Lula, gli hanno, di fatto, aperto la strada. Assenza di élites all’altezza, una connaturata debolezza istituzionale e il rischio di affermazione del peggiore populismo giudiziario, che si possa immaginare, sono, ad oggi, i principali elementi rivelatori di quale gigante dai piedi di argilla sia la democrazia brasiliana. Democrazia in termini formali, ça va sans dire.

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