Ultimo tango a Pomigliano

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2019-08-28

Triste, solitario y final. Luigi Di Maio è sempre più isolato all’interno nel MoVimento 5 Stelle dove molti parlamentari si rifiutano di sostenere la sua battaglia per la poltrona di vicepremier. Con il Conte-bis il Capo Politico del M5S sta perdendo la leadership del partito, riuscirà a salvare almeno la faccia?

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Il MoVimento 5 Stelle è una cosa strana. Qualche sera fa l’assemblea parlamentare ha dato “per acclamazione” il mandato a Stefano Patuanelli e Francesco D’Uva per condurre una trattativa con il Partito Democratico. Ma Luigi Di Maio è il Capo Politico, lui che fa? A quanto pare Di Maio rema contro, e non perché ha cuore l’interesse del Paese o quello del suo partito, ma perché è preoccupato di rimanere tagliato fuori.

Perché Di Maio ormai è un Capo Politico finito

Ieri l’assemblea portavoce dei portavoce pentastellati si è riunita di nuovo, ma il vicepremier non si è fatto vedere. Perché? Nei gruppi parlamentari del M5S sta montando la fronda contro Di Maio, con gli eletti che vorrebbero il vicepremier e i ministri Bonafede e Fraccaro fuori dal nuovo governo. Per tutta la giornata di ieri invece Di Maio ha puntato i piedi chiedendo un ministero importante (si è detto del Viminale o della Difesa) e il ruolo di vicepremier. L’insofferenza nei confronti del Capo Politico, considerato responsabile dei disastri elettorali ma salvato da un voto su Rousseau è tanta. A difenderlo ci sono però quelli che vorrebbero una riedizione del governo gialloverde, in testa Alessandro Di Battista (che però è fuori dal Parlamento e dagli incarichi di vertice del M5S).

di maio trattativa pd m5s conte - 2

Se il Partito Democratico ha accettato la possibilità di un Conte-bis è Di Maio che non vuole essere tagliato fuori. «Non accetto di essere umiliato così e non accetto che lo sia il Movimento. Conte è un premier terzo, io sono il capo politico del M5S che deve entrare nell’esecutivo come vicepremier», avrebbe detto durante una telefonata con il Segretario del PD Nicola Zingaretti. Il capo politico non si accontenta del Ministero della Difesa, vuole essere vicepremier, un ruolo dove negli ultimi 14 mesi non ha certo brillato per acume politico e competenza. E il motivo è chiaro: lasciare Conte da “solo” a Palazzo Chigi significa cedere potere all’Avvocato del Popolo che potrebbe così continuare a scalare il partito, forte anche dei consensi che i sondaggi accreditano alla sua persona. Dall’altra parte continua a levarsi il canto delle sirene leghiste che promettono a Di Maio la premiership e non vogliono Conte a Palazzo Chigi in caso di ritorno del M5S con la Lega (come vorrebbe proprio il fratello Dibba).

Di Maio ha paura che Conte si prenda la leadership del partito

Giuseppe Conte è riuscito nella manovra politica di presentarsi come il “nuovo”, anche se in questi quattordici mesi esattamente come Di Maio ha avallato le peggio schifezze in salsa leghista, addirittura auto-accusandosi per il caso Diciotti per salvare Salvini. D’altro canto invece Di Maio, acciaccato dalle molte sconfitte elettorali (Sicilia, Sardegna, Abruzzo, Basilicata e la batosta delle europee) appare sempre di più come un leader bollito. Alla tenera età di 32 anni è naturale che il grillino rampante non abbia alcuna intenzione di abbandonare la scena politica o fare un passo indietro. Men che meno di accettare il fatto che Conte non è più una figura “terza” ma un esponente del M5S a tutti gli effetti e quindi non necessità di un doppio vicepremier. Le conseguenze per Di Maio sono disastrose: non è più il Capo Politico che concede il potere a Conte, è Conte che sta per diventare il vero Capo Politico del M5S.

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Eppure un vero leader è anche quello che è in grado di capire quando è il momento di mollare e cedere su personalismi che non fanno bene né al partito né al Paese, visto che condizionano la nascita del Governo. Di Maio tratta con il PD sulle poltrone, proprio lui che fa parte del partito degli anti-poltronari, e lo fa da una posizione di forza. Ma quella forza non gli appartiene perché un capo politico che non gode della fiducia del suo stesso partito non ha le spalle sufficientemente coperte per farlo. Salvini voleva i pieni poteri, Di Maio ha coltivato il sogno di mantenere il potere che già aveva ma è Conte che alla fine raccoglie attorno a sé il consenso dei parlamentari del MoVimento.

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Certo, ora si voterà su Rousseau, una soluzione gradita a Di Maio che la userà per raffreddare lettera d) dell’articolo 4 dello Statuto del M5S lo scontro interno al M5S e togliere il potere decisionale dalle mani dei gruppi parlamentari che gli sono diventati ostili e che infatti hanno visto la mossa come un tentativo di esautorare la democrazia parlamentare (del resto è il Parlamento che dà la fiducia al nuovo esecutivo, non poche migliaia di iscritti ad un sito). Anche sul fatto che gli iscritti di Rousseau possano avere l’ultima parola non è del tutto vero. Ai sensi della «il Garante o il Capo Politico possono chiedere la ripetizione della consultazione, che in tal caso s’intenderà confermata solo qualora abbia partecipato alla votazione almeno la maggioranza assoluta degli iscritti ammessi al voto». Insomma non è mica vero, e il Capo Politico (cioè Di Maio) può sempre sparigliare le carte. Ma sono le ultime che gli rimangono da giocare. Anche a Pomigliano – racconta il Mattino – ormai i suoi concittadini non lo sostengono più come un tempo. Il parroco prega per lui «affinché faccia le cose giuste» e citando San Pietro lo esorta a «governare come colui che serve, che deve lavorare per il bene di tutti». Chi ha orecchie per intendere, intenda.

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