Perché il riconoscimento biometrico nella PA non serve a niente e costa tanto

di Apeiron

Pubblicato il 2018-10-26

In questi giorni si sente parlare dell’intenzione del ministro Bongiorno di voler introdurre in tutti i comuni d’Italia sistemi biometrici per registrare la presenza degli impiegati a lavoro. Prima di fare una riflessione è necessario capire cos’è un processo di riconoscimento. Nel mondo dell’informatica, l’autenticazione è quel processo con il quale riconosciamo chi effettua un accesso, …

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In questi giorni si sente parlare dell’intenzione del ministro Bongiorno di voler introdurre in tutti i comuni d’Italia sistemi biometrici per registrare la presenza degli impiegati a lavoro. Prima di fare una riflessione è necessario capire cos’è un processo di riconoscimento. Nel mondo dell’informatica, l’autenticazione è quel processo con il quale riconosciamo chi effettua un accesso, ad esempio ad un sistema o ad un programma ma anche per aprire una porta altrimenti chiusa o dimostare la presenza sul luogo di lavoro. Riconoscere la persona che sta dall’altra parte del terminale si può fare di base in tre modi: in base a ciò che sa, in base a ciò che ha, in base a ciò che è. Per capirci meglio, in base a ciò che sa è la vecchia e cara password: solo la persona che detiene un certo nome utente conosce la password associata, e quindi confidiamo che se la inserisce correttamente ci sia lei seduta alla tastiera. In base a ciò che si ha invece, l’individuo si riconosce perché possiede qualcosa che le è stato precedentemente assegnato, ad esempio un badge, il classico cartellino con il quale molti dipendenti, pubblici e non, si presentano al lavoro utilizzandolo in entrata ed in uscita e che è l’argomento che sta a cuore al ministro. L’ultimo sistema, ciò che si è, non è niental’altro che il riconoscimento fisico della persona che si implementa con la biometria, cioè il riconoscimento di una parte unica, caratteristica e indivisibile del nostro corpo (e come tale non si può cambiare come una password o sostituire come un badge, in caso di furto del dato biometrico son dolori!). I sistemi di accesso biometrico più diffusi utilizzano l’impronta digitale, la lettura della retina, o il riconoscimento facciale per capire chi sta di fronte all’apparato.

 

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Detto questo è interessante notare come tali sistemi siano diffusi nei sistemi informatici in modo proporzionalmente inverso dalla vita di noi umani: ci capita in ogni momento della nostra giornata di essere riconosciuti dagli altri per ciò che siamo, chi ci conosce ci vede, vede la nostra faccia, riconosce il nostro corpo, anche al telefono viene riconosciuta la nostra voce o al videocitofono il nostro viso. Noi umani siamo delle macchine di riconoscimento biometrico viventi ed esercitiamo questa capacità ogniqualvolta incontriamo qualcuno. Più raramente ci viene richiesto di autenticarci in base a ciò che abbiamo, ad esempio questi sistemi di home-banking dove ci viene fornito un “token”, un dispositivo che genera numeri in pratica, oppure tramite smart-card da inserire in appositi lettori. Rarissimi poi i casi dove qualcuno ci chiede una parola chiave per essere riconosciuti, forse qualche buontempone o amante delle atmosfere delle spy-story anni ’60 usa una parola d’ordine o una frase segreta per farci entrare ad un festa o accedere ad un club privato. Concludendo, la vita “reale” è esattamente opposta alle pratiche della vita “digitale”. Detto questo, tralasciando il fatto che ci possono essere processi di autenticazione più complessi realizzati con un misto di queste tecniche (ad esempio richiedo un badge ma devo anche inserire un pin, cioè una password) e senza addentrarci sul fatto che i vari processi hanno pecche e criticità differenti, torniamo al caso della volontà della ministra di volere implementare sistemi biometrici, riconoscere quindi “ciò che si è”.

maria teresa zampogna giulia bongiorno

 

Non entriamo nel discorso se sia giusto considerare i dipendenti pubblici tutti assenteisti, non entriamo neppure nell’analisi se i comuni italiani abbiano fondi per cambiare diverse migliaia di timbratori (ogni ente ne ha spesso più di uno già nei piccoli comuni, figuriamoci in quelli di grandi dimensioni) con tutto quello che ci va dietro per trattare con la dovuta cura dati sensibili come quelli biometrici… ma alla luce di quanto sovraesposto sui sistemi di autenticazione e riconosciuto l’uomo come la “macchina” che più si avvicina alla perfezione per il riconoscimento degli individui, non si può semplicemente imporre ai vari capiufficio, dirigenti e varie figure apicali (e perché no agli stessi colleghi?) di verificare o meno la presenza a lavoro dei sottoposti? Perché demandare alla macchina quello che l’uomo sa fare benissimo? Si potrebbe obiettare che in un ente grande non ci si conosce tutti anche se si appartiene allo stesso ufficio, o che l’elevato numero di persone rende impraticabile l’idea, tuttavia mi si consenta di replicare che stranamente nel mondo privato ci riescono benissimo a verificare se qualcuno è assente, o, alla peggio, che si proponga di inserire dispositivi biometrici solo in enti di grandi dimensioni, perché estendere a tutti i comuni ed enti d’Italia? Infine, signor Ministro, si lasci dire che spendere milioni di euro e introdurre criticità non risolve il piccolo particolare che al lavoro ci si può andare benissimo, farsi riconoscere dalla macchina, e poi andare a pesca o a fare la spesa esattamente come qualcuno faceva prima. A quando il chip sottopelle con la geolocalizzazione?

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