Perché Fioramonti e Giarrusso non chiedono qualche consiglio ai cosiddetti “cervelli in fuga”?

di Stefano Amoroso

Pubblicato il 2018-09-06

Di primo acchito l’annuncio del sottosegretario Fioramonti sull’istituzione di un “osservatorio” sui concorsi può sembrare condivisibile. In un Paese civile in realtà, ci si aspetta che i concorsi non siano truccati e il modello di reclutamento serva a selezionare i migliori e che le regole di convivenza civile adottate siano sufficienti a questo, senza ricorrere …

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Di primo acchito l’annuncio del sottosegretario Fioramonti sull’istituzione di un “osservatorio” sui concorsi può sembrare condivisibile. In un Paese civile in realtà, ci si aspetta che i concorsi non siano truccati e il modello di reclutamento serva a selezionare i migliori e che le regole di convivenza civile adottate siano sufficienti a questo, senza ricorrere a osservatori suppletivi alle norme vigenti. Discorso che dovrebbe valere soprattutto se è in ballo la selezione di costoro a cui lo Stato – e quindi il tax payer – affida, fra le altre cose, l’alta formazione, la selezione della classe dirigente, la creazione di nuove idee e tecnologie e la costituzione del contorno culturale di un Paese (la cosiddetta terza missione).

Ebbene in Italia, lo Stato si affida ad un modello di selezione – il concorso pubblicato in Gazzetta Ufficiale in lingua italiana – che attualmente rappresenta una eccezione nel panorama dei paesi più avanzati. All’estero, soprattutto nel mondo anglosassone, la selezione del personale accademico e di ricerca è fatto attraverso call pubbliche internazionali aperte, con panel di esperti indipendenti chiamati da tutto il mondo a valutare i candidati migliori. La valutazione del panel avviene attraverso la peer review: un gruppo rappresentativo di esponenti esperti di un determinato campo o disciplina (i peer, cioè i pari) sono chiamati a valutare (review) i candidati. La valutazione avviene per fasi successive, in modo sempre più approfondito e riguarda il curriculum, i risultati ottenuti, la motivazione e i progetti per il futuro del candidato. Quando un peer “raccomanda” un candidato attraverso una recommendation letter mette in gioco la sua reputazione scientifica (e morale) difronte all’intera comunità scientifica, non baratta un favore. Gli si chiederà conto – potenzialmente o realmente – della valutazione fatta.

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Al termine del processo valutativo l’ente selezionatore si assume la responsabilità della scelta del candidato e della sua selezione. Valutare e scegliere sono due atti di grande responsabilità, che troppo spesso non sono attuati dalle commissioni formalmente indipendenti composte da professori ordinari incaricati a vita sine iudicio che redigono carte formalmente ineccepibili.
Il candidato, così selezionato, solitamente viene assunto in una prima fase con contratti a termine (tipicamente 4 anni). Se la sua attività conferma le aspettative, la persona viene inserita in un percorso di tenure track, ovvero in attesa di conferma in ruolo permanente o a tempo Indeterminato, a seguito di una nuova valutazione peer review. Il conseguimento di una posizione permanente – a differenza di quanto avviene in Italia – non significa “a vita”. All’estero i migliori salari sono garantiti ai ricercatori e agli accademici anche in considerazione del fatto che esiste mobilità e concorrenza. L’Italia rappresenta anche sotto questo aspetto un’eccezione.

Il modello di reclutamento sopra descritto (che a grandi linee è quello adottato ad Harvard) è all’origine della fuga dei cervelli dall’Italia. Questo perché garantisce mobilità, meritocrazia e una sana competizione su idee innovative e capacità di attrarre fondi. In questo modo si mette in atto una scala sociale dove prevale il merito rispetto alla rendita per nascita o per fedeltà a un gruppo (il baronato appunto). I concorsi made in Italy – dati alla mano – hanno incentivato nel tempo diverse pratiche che hanno consentito sia il fenomeno delle “baronie” sia “la fuga dei cervelli”. In un certo senso due facce della stessa moneta. Alcune delle evidenze più preoccupanti riguardano non a caso la bassa mobilità dei professori e dei ricercatori. Per lo più ci si laurea e si viene assunti nella stessa università (al limite con qualche periodo fuori casa). I ricercatori più giovani non hanno accesso a fondi appropriati e non hanno la possibilità di avere propri progetti di ricerca (per questo fuggono all’estero). La stabilizzazione arriva mediamente in età avanzata e quando avviene è “a vita”. I salari non sono adeguati e competitivi con l’estero.

Qualsiasi analisi seria fa emergere queste evidenze. Ciò nonostante in Italia esiste comunque una buona qualità generale. Ma ancora per quanto ? Oggi l’Italia investe complessivamente in Università e ricerca circa 10 miliardi all’anno. Una percentuale sul PIL decisamente inferiore rispetto a quanto fanno i Paesi più avanzati. Una maggiore spesa è auspicabile e necessaria. Ma prima bisognerebbe cambiare il modello. Il rischio infatti è di mettere acqua in un colabrodo o ancora peggio di sovvenzionare con denaro pubblico gruppi di privilegiati che perpetuano il loro potere. Perché prima di indire Osservatori, non si chiede consiglio agli scienziati italiani (illustri o meno) che hanno scelto di lavorare all’estero? Penso che i suggerimenti e gli spunti non mancherebbero.

Leggi sull’argomento: Perché l’«osservatorio» di Dino Giarrusso sui concorsi universitari non serve a niente

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