Il piano B di Di Maio sul reddito di inclusione

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2018-06-29

Fino a ieri il reddito di cittadinanza doveva vedere la luce entro quest’anno. Ora il ministro del Lavoro e dello Sviluppo punta a triplicare i fondi per lo strumento del governo Gentiloni

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Il reddito di cittadinanza, lo ricorderete, aveva “tutte le coperture”. Erano state “certificate”, lo ricorderete, “dalla Ragioneria Generale dello Stato”. Insomma, raccontavano i grillini nella scorsa legislatura, era tutto a posto e bisognava solo approvarlo. Sarà per questo che già da ieri alcuni ministri grillini davano come data il 2019 per l’approvazione della Grande Riforma che ha portato tanti voti al MoVimento 5 Stelle. E sarà per questo che adesso l’obiettivo di Di Maio per la Legge di Bilancio 2019 è quello di triplicare i fondi del reddito di inclusione (REI), una misura del governo Gentiloni.

Il piano B di Di Maio sul reddito di inclusione

A raccontare il piano B di Di Maio sul reddito di inclusione è oggi Alessandro Barbera sulla Stampa: nella finanziaria d’autunno Di Maio ha però le idee chiare: a Giovanni Tria chiederà di innalzare le pensioni sociali e triplicare la dote del reddito di inclusione.

In attesa di realizzare l’utopia di un assegno a tutti coloro che non lavorano, il leader Cinque stelle vuole raggiungere almeno le famiglie in povertà assoluta. Tutto sommato lo stesso obiettivo che – fuori tempo massimo – aveva immaginato il Pd. Nel bilancio ci sono quasi due miliardi: una volta sterilizzato l’aumento Iva e finanziate le spese non rinviabili trovarne fino a sei non sarà facile. Di Maio spera in uno sforzo dell’Europa e nell’aiuto del Tesoro, contro il quale non c’è stata finora una sola parola di vera critica per le uscite (a suo avviso fin troppo prudenti) sulla gestione dei conti pubblici.

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Reddito di inclusione, reddito di cittadinanza e reddito di avviamento: il confronto (Il Sole 24 Ore, 30 marzo 2018)

Se lo spazio non ci fosse, per evitare dolorosi tagli alla spesa una soluzione potrebbe essere la riduzione della platea dei beneficiari del bonus Renzi, anche se nel Movimento viene valutata come extrema ratio.

Ecco quindi che il progetto comincia a farsi meno complicato rispetto a quello di partenza. Perché reperire 17 miliardi (una stima ottimistica) è sembrata idea al di fuori di ogni logica viste le parole del ministro Giovanni Tria e la brutta fine che ha fatto il decreto Dignità, dapprima emendato delle sue parti politicamente più sensibili ed economicamente più pericolose (le norme sulla Gig Economy) e l’altroieri in consiglio dei ministri rimandato per un approfondimento visti i problemi di attuazione trovati dai tecnici e ancora da risolvere.

I problemi del decreto dignità

Per quanto riguarda il decreto dignità, i problemi sembrano invece essere proprio altri. Ad esempio mancherebbero le coperture per l’abolizione dell’obbligo dello split payment, un meccanismo tributario mirato a contrastare l’evasione del pagamento dell’Iva quando si ha a che fare con la pubblica amministrazione, introdotto nel 2015 dal governo di
Matteo Renzi, che ha indubbiamente complicato la vita dei contribuenti onesti, costretti a gestire problemi di liquidità, ma dando ottimi risultati: nel biennio 2015-2016 c’è stato un maggior gettito Iva, pagata dai contribuenti disonesti, quantificabile in circa 3,5 miliardi. Roberto Giovannini sulla Stampa segnala però una serie di altri problemi, politici, su altre norme previste dal decreto:

Eppure, le voci che trapelano lasciano intendere che i problemi che hanno suggerito di rinviare il varo del decreto (esclusa la parte sulla fatturazione elettronica, indispensabile per evitare lo sciopero dei benzinai) sono ancora più articolati. Vanno al di là del tema delle coperture finanziarie, e riguardano sia il merito delle misure sia il loro impatto politico. Il punto è l’intenzione da parte di Di Maio, in qualità di ministro del Lavoro, di ridurre il grado di flessibilità e di precarietà del mercato del lavoro.

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Nel «decreto dignità» già era scomparsa la norma che avrebbe regolamentato il lavoro dei rider e degli altri lavoratori della «gig economy». Ma per il momento, nel testo c’è ancora la stretta sui contratti a tempo determinato, con il ritorno delle causali dopo i primi dodici mesi, il limite a 4 proroghe, l’aumento dei costi contributivi a carico delle imprese dell’1% per ogni nuovo contratto. Ieri Confindustria, Confesercenti e Confcommercio hanno protestato contro questa misura. Una protesta, pare, che avrebbe trovato ascolto sia al ministero dell’Economia che al quartiere generale della Lega.

Insomma, ci sono altri e più cogenti problemi dietro il rinvio che dovranno a questo punto essere risolti entro una settimana. E la Gig Economy può attendere. Così come la dignità.

Leggi sull’argomento: Come il decreto dignità potrebbe ammazzare la precarietà… e la Gig Economy

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