Opinioni

Tor di Valle, una cosa che non torna nel vincolo della soprintendenza sull'ippodromo

dipocheparole 20/02/2017

La notizia è sulla bocca di tutti e sta destando scalpore. A pochi giorni dalla scadenza del termine di conclusione dei lavori della conferenza dei servizi decisoria sul progetto dello stadio della Roma a Tor di Valle, si apprende che la Soprintendenza per l’archeologia, le belle arti e il paesaggio per il Comune di Roma […]

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La notizia è sulla bocca di tutti e sta destando scalpore. A pochi giorni dalla scadenza del termine di conclusione dei lavori della conferenza dei servizi decisoria sul progetto dello stadio della Roma a Tor di Valle, si apprende che la Soprintendenza per l’archeologia, le belle arti e il paesaggio per il Comune di Roma del Ministero dei beni e della attività culturali ha avviato, con comunicazione del 15 febbraio scorso indirizzata al proponente, il procedimento di dichiarazione di interesse culturale della porzione dell’Ippodromo di Tor di Valle rappresentata dalla tribuna.
Al netto delle valutazioni di merito sulla possibilità di qualificare come bene di interesse culturale l’immobile in questione e sulla singolare tempistica di un procedimento che sarebbe stato opportuno avviare in tempi non sospetti (ad esempio al momento dello svolgimento della conferenza dei servizi preliminare), proviamo a capire come si colloca l’iniziativa procedurale della Soprintendenza statale nell’ambito del più complessivo procedimento amministrativo in corso presso la conferenza dei servizi sul progetto dello stadio. La domanda di fondo è: una volta avviata la speciale fase procedurale della conferenza dei servizi decisoria disciplinata dal comma 304 della legge n. 147/2013, poteva la Soprintendenza dar corso, al di fuori di quella sede, al procedimento di apposizione del vincolo o non avrebbe, al contrario, dovuto rappresentare le esigenze di tutela del bene immobile in questione all’interno del procedimento già in corso, avvalendosi del tramite del rappresentante unico dello Stato che partecipa ai lavori della conferenza?
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La tesi, che qui si sostiene, è che la Soprintendenza avrebbe dovuto seguire la seconda delle vie sopra indicate, evitando di avviare un iter autonomo di dubbia legittimità in quanto destinato a concludersi ben oltre il termine della conferenza dei servizi decisoria e limitandosi ad esprimere il proprio dissenso in quella sede, ai sensi dell’art. 14-ter, comma 4, della legge n. 241/1990. Tale disposizione stabilisce, infatti, che le amministrazioni di cui all’articolo 14-quinquies, comma 1 (ossia quelle preposte alla tutela ambientale, dei beni culturali, della salute e della pubblica incolumità), prima della conclusione dei lavori della conferenza, possono esprimere al rappresentante unico il proprio dissenso ai fini della successiva eventuale opposizione al Presidente del Consiglio. Seguendo tale più corretto percorso procedurale, all’esito della conferenza dei servizi, ove la determinazione finale non avesse tenuto conto dei rilievi mossi dalla Soprintendenza, quest’ultima avrebbe avuto a disposizione il rimedio previsto dall’articolo 14-quinquies, comma 1, della legge 241/90, consistente nella presentazione di una opposizione al Presidente del Consiglio dei ministri.
Che questa fosse la via maestra da seguire per evitare indebite interferenze con il procedimento della conferenza dei servizi decisoria, sembra anzitutto testimoniarlo la natura stessa dell’istituto della conferenza dei servizi decisoria, che il legislatore (da ultimo, con la riforma Madia) ha inteso configurare come sede esclusiva di concentrazione di tutti i procedimenti autorizzatori e di assenso comunque denominati riferiti a progetti nei quali converga una pluralità di interessi pubblici da salvaguardare e da ricomporre ad unità sulla base di un iter semplificato e scandito da tempi certi. Finalità, questa, oltre tutto pienamente recepita dalla disciplina che regola la costruzione di nuovi impianti sportivi, come dimostra la clausola di salvaguardia contenuta nel comma 304, lettera e), della legge n. 147/2013 a favore dei regimi di maggiore semplificazione previsti dalla normativa vigente (semplificazione che certamente sarebbe negata se portasse a compimento l’autonomo procedimento di dichiarazione di interesse culturale attivato dalla Soprintendenza).
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Si tratta di una lettura che appare, del resto, avvalorata anche da alcune disposizioni del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) qualora se ne faccia oggetto di una interpretazione sistematica che non si fermi alla lettera degli enunciati legislativi, oltre tutto non coordinati con i successivi interventi del legislatore. In particolare, se è vero, infatti, che l’articolo 14 del codice dei beni culturali non reca indicazioni di sorta in merito all’eventualità che il bene oggetto dell’avvio del procedimento di tutela sia già coinvolto in un ambito decisionale complesso di ordine superiore (come quello della conferenza dei servizi decisoria), qualche argomento a contrario può trarsi dall’articolo 25 del medesimo codice. Quest’ultima disposizione, nel disciplinare gli effetti del procedimento in conferenza dei servizi su beni culturali (per i quali, quindi, il vincolo sia stato già perfezionato in esito alla procedura di cui all’articolo 14) e nell’ammettere che anche per i beni coperti dal vincolo la determinazione finale della conferenza dei servizi sostituisce l’autorizzazione del Ministero ad effettuare interventi ablativi (inclusi la demolizione e lo spostamento), può interpretarsi nel senso che l’attrazione alla conferenza dei servizi delle autorizzazioni in materia valga a fortiori per i beni (come la tribuna dell’ippodromo di Tor di Valle) sui quali non insista ancora alcun vincolo che richieda particolari cautele procedimentali diverse da quelle già ampiamente offerte dal procedimento in conferenza dei servizi. Lo stesso comma 2 dell’articolo 25 stabilisce un criterio di prevalenza della determinazione favorevole all’opera assunta in contrasto con il dissenso espresso da un organo ministeriale (come appunto la soprintendenza), rinviando, per la conclusione dei lavori della conferenza, alle “vigenti disposizioni di legge in materia di procedimento amministrativo” (che oggi prevedono tra l’altro, come noto, la presenza in conferenza dei servizi di un unico rappresentante statale e, soprattutto, l’adozione della decisione finale sulla base delle posizioni ritenute prevalenti dall’amministrazione procedente, senza dunque riconoscere ad alcun ente o organo un sostanziale potere di veto ma attribuendo solo ad alcuni di essi – tra cui le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e dei beni culturali – il potere di proporre opposizione al Presidente del Consiglio dei ministri avverso la determinazione motivata di conclusione della conferenza.
In sostanza, dunque, a seguito dell’apertura della fase finale della conferenza dei servizi decisoria e alla luce delle finalità acceleratorie e semplificatorie che ispirano l’istituto, parrebbe consumarsi definitivamente la facoltà per una soprintendenza di avviare ex novo un procedimento ordinario di apposizione di un vincolo, residuando all’organo ministeriale il solo potere di veicolare, per il tramite del rappresentante unico dello Stato, i propri rilievi e di adoperarsi affinché la determinazione finale della conferenza contenga le prescrizioni necessarie per una migliore tutela del valore culturale del bene, ovvero, laddove reputi che la determinazione finale non soddisfi dette esigenze di tutela, proporre opposizione al Presidente del Consiglio.
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Infine, un’annotazione di giurisprudenza che aiuta a comprendere il motivo per il quale la sede della conferenza dei servizi decisoria sia la più idonea per una valutazione contestuale dei numerosi interessi pubblici in gioco quando si tratti di decidere su progetti di particolare complessità, come è il caso del progetto Tor di Valle. Nella sentenza 2 marzo 2015, n. 1003, la VI sezione del Consiglio di Stato, in merito ad una controversia riguardante il progetto di trasformazione in centro commerciale di un vecchio cinema, evidenzia che l’apprezzamento dell’interesse culturale dell’immobile considerato e della conseguente necessità di sottoporlo al regime di tutela non può prescindere “a pena di una astrazione pericolosa per la stessa sopravvivenza in concreto della cosa che costituisce il bene culturale, dalla considerazione delle concrete coordinate di spazio e di tempo in cui esso è calato” ed afferma che “la valutazione dell’Amministrazione deve necessariamente tener conto di un complesso e integrato sistema attinente all’interesse pubblico in concreto, nel quale la concreta sopravvivenza della testimonianza culturale deve inevitabilmente collegarsi alla necessità di preservare, con il valore culturale, la stessa esistenza materiale e la vitalità del contesto del quale il bene stesso è parte integrante”. Non meno interessante è l’osservazione che in quell’occasione fa il giudice amministrativo in ordine alla destinazione d’uso dell’immobile oggetto della controversia. “Il vincolo di cui qui si verte – si legge nella sentenza – rende in pratica impossibile una destinazione d’uso diversa da quella teatrale o cinematografica e, quindi, quanto a effetti pratici, si risolve in un vincolo di destinazione d’uso […] Insomma, sotto le apparenze di un vincolo strutturale qui il decreto di vincolo si risolve, per la sua analiticità, in un vincolo essenzialmente di destinazione d’uso, non potendosi più configurare utilizzazione diverse per il manufatto in questione. La giurisprudenza però non ammette i vincoli culturali di mera destinazione, specie per attività commerciale o imprenditoriali (cfr. Cons. Stato, VI, 16 settembre 1998, n. 1266; 13 settembre 1990, n. 819; 28 agosto 2006, n. 5004; 6 maggio 2008, n. 2009; 12 luglio 2011, n. 4198; IV, 12 giugno 2013, n. 3255) […] Vi si può aggiungere che per le dette ragioni un tale effetto di limitazione della destinazione d’uso sembra qui generare un’insostenibilità economica della utilizzazione: va dunque in ultimo a contraddire la stessa salvaguardia materiale del bene, cui la legge di tutela è orientata”. Le motivazioni della sentenza proseguono con il rilievo che il vincolo di interesse culturale non può essere frutto di ragionamenti astratti ma deve risultare compatibile con la “concreta situazione di fatto nella quale l’immobile è calato […] e con le esigenze di garantire nella realtà economica la sopravvivenza stessa dell’immobile, nelle sue caratteristiche degne di conservazione e di tutela”.
Ce n’è abbastanza per richiamare alla mente la situazione dell’ippodromo di Tor di Valle, oggi abbandonato al più totale degrado. E per sperare che la conferenza dei servizi decisoria, il prossimo 3 marzo, sappia assumere la decisione giusta.

Leggi sull’argomento: Stadio della Roma a Tor di Valle, il vincolo è in mano a Franceschini

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