Riusciremo mai a spendere i Recovery Funds?

di Vincenzo Vespri

Pubblicato il 2020-07-24

L’Italia nei prossimi anni, per accedere agli ingenti fondi messi a disposizione dalla Comunità Europea, deve saper dimostrare di saper investire e di saper spendere in ricerca sia pura che industriale. Lo “storico” non è per nulla incoraggiante. L’Italia spende poco e male i fondi Europei. Ci sono intere schiere di ministeriali che sembrano avere …

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L’Italia nei prossimi anni, per accedere agli ingenti fondi messi a disposizione dalla Comunità Europea, deve saper dimostrare di saper investire e di saper spendere in ricerca sia pura che industriale. Lo “storico” non è per nulla incoraggiante. L’Italia spende poco e male i fondi Europei. Ci sono intere schiere di ministeriali che sembrano avere come fine ultimo della loro esistenza quello di complicare la già bizantina legislazione italiana rendendo impossibile accedere ai fondi stanziati per le nostre aziende e start up. Burocrazia cieca ed ottusa che rema ormai da decenni contro gli interessi e lo sviluppo del paese. Facciamo l’esempio del credito d’imposta per ricerca e sviluppo. Un bellissimo (almeno teoricamente) strumento introdotto dal Governo Renzi. Secondo le (buone) intenzioni, le aziende che avrebbero investito in ricerca industriale avrebbero potuto usufruire, in maniera quasi automatica, di un cospicuo credito d’imposta. A prima vista uno strumento rapido, veloce ed efficiente. Ma in Italia, il diavolo non si limita a vestire Prada ma dà il meglio di sè in decreti attuativi ed esplicativi delle norme di legge. Il biennio 2016-2018, per la Ricerca Industriale in Italia sarà ricordato come l’era della Fedeli e di Cantone (rispetto a cui l’era di Ultron descritta nei film della Marvel avrebbe potuto essere considerata come la mitica età dell’oro). Il dinamico duo introdusse una serie di norme restrittive capaci di distruggere la resistenza fisica, nervosa e mentale di qualunque onesto cittadino. Le intenzioni di base di questo diluvio di circolari erano sicuramente ottime e condivisibili, ma hanno finito per introdurre troppe norme, troppe restrizioni e hanno generato un contenzioso che darà da vivere, nei decenni futuri, a legioni di fiscalisti ed avvocati.

giuseppe conte recovery fund

Le ragioni delle criticità di questa misura sono molteplici:

– Una definizione di cosa sia innovazione troppo restrittiva (più restrittiva di quella comunitaria), per cui, in teoria, progetti finanziati dalla Comunità Europea come innovativi potrebbero essere non considerati tali dall’Agenzia delle Entrate. Per dare l’esempio, l’IPhone della Apple avrebbe potuto non essere consiuderato come un prodotto da agevolare in quanto “semplice” integrazione di tecnologie esistenti.
– Una verifica solo a posteriori della ammissibilità delle agevolazioni fiscali mentre sarebbe stato auspicabile l’esistenza di una commissione valutativa che facesse un primo screening dei progetti evitando (o quanto meno drasticamente riducendo) interminabili discussioni processuali a posteriori se una attività fatta dall’azienda ricadesse o meno nell’idea platonica d’innovazione dell’Agenzia delle Entrate.
-L'”ingordigia” di società di consulenze e delle aziende coinvolte che si sono lanciate a pesce su questa misura pensando non sarebbero state fatte verifiche.
– La mancanza di cultura su cosa sia veramente ricerca ed innovazione, sia da parte delle aziende, che considerano essere ricerca anche attività di mero sviluppo industriale e sia da parte dell’accademia che ritiene che la ricerca debba essere, per la sua definizione, del tutto inutile. Secondo questa mentalità pauperista, se una ricerca industriale produce alla fine un prodotto (magari anche di successo) non può essere agevolata perché non sufficientemente “pura”.

Sicuramente per rendere operativa questa misura, i legislatori avrebbero dovuto prendere misure per snellire le procedure burocratiche, avrebbero dovuto costituire un Comitato Tecnico Scientifico (fatto di Professori e Tecnici di provata esperienza sul campo) che analizzassero “a priori” la presenza dei requisiti per l’applicazione del credito d’imposta, avrebbero dovuto allineare la normativa italiana con quella europea ed avrebbero dovuto incoraggiare noi professori a trasferire le nostre conoscenze teoriche nell’impianto produttivo al fine di rendere più competitivo il Paese. Niente di ciò è stato fatto e , ancora peggio, il legislatore sembra non avere ancora metabolizzato la necessità di questi interventi…Lasciatemi quindi essere molto ma molto pessimista sulla capacità dello Stato di spendere i soldi stanziati dall’Europa con i Recovery Funds. Ciò infatti richiederebbe una rivoluzione copernicana sia dell’amministrazione burosaurica dello stato e sia una riflessione approfondita su cosa sia e a cosa serva l’Università all’alba del Terzo Millennio. Ma se non saremo in grado di fare questa rivoluzione culturale, l’Europa potrà darci tutti i Recovery Funds che possiamo immaginare, ma sarà del tutto inutile perché non saremmo mai in grado di utilizzarli.

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