La Regione Lombardia vuole schedare le donne vittime di violenza

di Antonio Murzio

Pubblicato il 2017-09-12

L’ente impone l’identificazione della donna vittima di violenza che si rivolge a un centro attraverso il suo codice fiscale. La Rete Lombarda dei Centri Antiviolenza manifesta il suo dissenso

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L’appuntamento è per questo pomeriggio alle 16 davanti alla sede della Regione Lombardia. La “chiamata alle armi” del coordinamento dei centri antiviolenza è partita con una petizione su change.org (prima firmataria l’attrice Lella Costa), che in pochi giorni ha superato le tremila sottoscrizioni. I centri antiviolenza contestano la “deriva securitaria” della Regione Lombardia, che, con una delibera del 19 dicembre 2016, ha istituito il sistema “Ora”, che impone l’identificazione della donna vittima di violenza che si rivolge a un centro attraverso il suo codice fiscale.

La Regione Lombardia vuole schedare le donne vittime di violenza

I centri ritengono che la richiesta dei dati, codice fiscale compreso, metta a rischio le donne. L’anonimato e la segretezza sono i punti cardine dell’attività dei Centri Antiviolenza, che vogliono continuare a raccogliere i dati statistici che consentono di monitorare il fenomeno. I diciotto centri aderenti alla rete lombarda dei CAV non rifiutano di fornire le informazioni necessari e coerenti per verificare i finanziamenti, ma contestano che Regione chieda la tracciabilità e la gestione del percorso della donna vittima di violenza attraverso la creazione del “fascicolo donna”. Secondo la delibera contestata, invece, tutti i dati delle donne vittime di violenza (codice fiscale compreso), dovrebbero, andare direttamente a Regione Lombardia, che esige anche il recupero del fascicolo donna e le informazioni in esso contenute.
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C’è un’altra delibera, più recente (è del 28 aprile 2017), che ha provocato una dura reazione dei Centri antiviolenza, delibera che determina le caratteristiche delle organizzazioni che possono iscriversi all’Albo dei Centri Antiviolenza accreditati presso la Regione Lombardia. «La Convezione di Istanbul garantisce che i luoghi di accoglienza e ospitalità possano essere di sole donne, derogando alla discriminazione sessuale e anche l’Intesa Stato Regioni del 27 novembre 2014 sancisce che i centri antiviolenza sono “associazioni e organizzazioni operanti nel settore del sostegno e dell’aiuto alle donne vittime di violenza, che abbiano maturato esperienze e competenze specifiche in materia di violenza contro le donne, che utilizzino una metodologia di accoglienza basata sulla relazione tra donne, con personale specificatamente formato sulla violenza di genere»,
ha chiarito la Presidente del primo Centro Antiviolenza italiano, l’avvocata Manuela Ulivi della Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano, «Si cerca di svalorizzare il lavoro dei centri: a livello nazionale è stata riconosciuta l’importanza e la validità della metodologia dell’accoglienza, un metodo che consente alle donne di aprirsi perché in relazione con un’altra donna. Un centro antiviolenza è un luogo, sono le relazioni, il lavoro di anni di esperienza, non si può limitare ai professionismi».

La furbata dell’inserimento nell’Albo

I centri lombardi che si riconoscono nella rete nazionale D.i.Re. Donne in Rete contro la violenza si oppongono all’inserimento nell’Albo Regionale di enti, associazioni e fondazioni che non abbiano le caratteristiche dei centri antiviolenza e ritengono fondamentale che i criteri selettivi contemplino sia la presenza di sole operatrici donne, sia l’attuazione della metodologia dell’accoglienza in un contesto che dia continuità al progetto delle donne, così come previsto dall’articolo 1 della citata Intesa Stato Regioni e dalla Convenzione di Istanbul. Il timore è che realtà composte da professionisti che fino a poco tempo prima si occupavano d’altro si improvvisino in attività di centri antiviolenza per poter accedere ai finanziamenti pubblici senza avere maturato alcuna competenza specifica.

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