FAQ
Il PD è diventato un partito da ricchi?
di Alessandro D'Amato
Pubblicato il 2016-06-07
«Il partito della fu-sinistra che sfonda solo nei quartieri dove vivono i ricchi e i turisti, mentre non trova più le parole per comunicare con la nuova plebe del pubblico impiego e del piccolo cabotaggio», scrive oggi Gramellini sulla Stampa. Eppure la spiegazione potrebbe essere diversa
A Roma i numeri sono impressionanti: il voto ai sindaci nei municipi della Capitale dimostra che Virginia Raggi ha vinto in tutte le zone della città tranne che nei primi due, ovvero il centro storico e il Parioli-Nomentano, ovvero le più ricche della città. Le percentuali sono clamorose: 43,6% per la Raggi a Ostia contro un Giachetti che nemmeno tocca il 20%, 41% per la pentastellata a Tor Bella Monaca contro Giachetti al 17,6%. Commenta Paolo Conti sul Corriere della Sera: «Il Pd dialoga con la borghesia, i professionisti, col mondo dei circoli e dei salotti ma perde nella Roma più difficile. Capita sempre così, quando a Roma la sinistra si «autoreferenzializza». Nel 1985, dopo nove anni di giunte di sinistra troppo sicure di loro stesse, furono le periferie a restituire il Campidoglio alla Dc. Nel 2008 furono sempre le periferie a votare più per Gianni Alemanno e assai meno per lo sfidante, l’ex sindaco Francesco Rutelli, percepito come un ritorno e non come una novità. E Alemanno vinse».
A Milano è successa più o meno la stessa cosa, anche se qui il competitor non era Virginia Raggi ma Stefano Parisi e obiettivamente le vittorie del centrosinistra sono di più e meno razionalmente distribuite sul territorio:
Torino conferma l’addio delle «aree difficili» al Pd e al centrosinistra: nel centro storico il sindaco uscente Piero Fassino (ex segretario dei Ds) naviga su un solido 50% e più, mentre Chiara Appendino del M5S si ritrova al 22%, ma basta attraversare le periferie per individuare una Torino opposta, spesso con Chiara Appendino in vantaggio. A Bologna (e parliamo di una città che per decenni ha legato il proprio nome alla sinistra, quando l’Italia era democristiana, la città era «La Rossa» per eccellenza) il fenomeno è lo stesso. Il centrosinistra con Virginio Merola si è ripreso il quartiere di Santo Stefano, per anni bacino del centrodestra, ma nelle altre periferie c’è molto sostegno a Lucia Borgonzoni, candidata del centrodestra. Per questo Merola ha già pronto un comizio in quel della Bolognina, in piazza Unità, proprio nel tentativo di riaprire un dialogo anche puntando sui simboli. I centri storici e le aree più economicamente sicure sembrano insomma individuare nel centrosinistra un interlocutore rassicurante e, in qualche modo, «somigliante» al proprio modello di vita. Le periferie invece inseguono uno strumento politico di negazione, di dissenso.
Insomma, una situazione paradossale per il partito che voleva raccogliere l’eredità popolare del PCI e della DC si trova a perdere proprio in quelle aree dove il consenso era più forte. E infatti Massimo Gramellini sulla Stampa rigira il dito nella piaga:
Il partito della fu-sinistra che sfonda solo nei quartieri dove vivono i ricchi e i turisti, mentre non trova più le parole per comunicare con la nuova plebe del pubblico impiego e del piccolo cabotaggio, così come a Torino fatica a placare le ansie del ceto medio impoverito. (Va un po’ meglio a Milano, città di commercianti inclini alla moderazione per necessità di mestiere).
Ma proprio per questo magari la spiegazione potrebbe essere diversa: a far decidere per il voto “di protesta” (a Roma) e “di cambiamento” (a Milano) non è l’appartenenza territoriale o quella sociale (ai ceti più ricchi), ma il fatto che la ripresina economica di questi ultimi tempi abbia portato benefici – o è percepibile – per adesso soltanto ai “piani alti” della società. Deve invece ancora arrivare a quelli bassi, che quindi scelgono di cambiare votando centrodestra a Milano e 5 Stelle a Roma. È l’economia, bellezza. E tu non hai voluto farci niente.