La cultura come antidoto all’antisemitismo

di Vincenzo Vespri

Pubblicato il 2019-11-14

La società attuale ci costringe ad essere in contatto con altre culture. Come si fa ad essere razzisti in un contesto simile? Come facciamo ad odiare culture che volenti e nolenti, la moderna cultura dei social ci costringere a conoscere? Ad esempio se uno conosce un poco della cultura ebraica, come fa a sviluppare sentimenti antisemiti? …

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La società attuale ci costringe ad essere in contatto con altre culture. Come si fa ad essere razzisti in un contesto simile? Come facciamo ad odiare culture che volenti e nolenti, la moderna cultura dei social ci costringere a conoscere? Ad esempio se uno conosce un poco della cultura ebraica, come fa a sviluppare sentimenti antisemiti? Della cultura ebraica quasi non sapevo nulla. Tra contatti social e pagine web, sto incominciando a formarmene un’idea. L’altro giorno ho scoperto che nella tradizione ebraica esistono i dybbuk che sono lo spirito disincarnato di una persona morta, un’anima alla quale è stato vietato l’ingresso al mondo dei morti, lo Sheol. Queste anime generalmente vagano per un po’ per il mondo per poi attaccarsi al corpo di una persona vivente e coabitare con essa. Infatti a questa anima, poiché non è stata capace di compiere le azioni richieste nella propria vita terrena, viene data un’altra opportunità per portare a termine i compiti insoluti nella forma di un dybbuk. Esso abbandonerà l’essere ospite solo quando avrà raggiunto i propri obiettivi. Leggende simili a quella del dybbuk riguardano la figura del Golem. Secondo la leggenda chi veniva a conoscenza della Qabbalah, e in particolare dei poteri legati ai nomi di Dio, poteva fabbricare un golem, un gigante di argilla forte e ubbidiente, che poteva essere usato come servo, impiegato per svolgere lavori pesanti e come difensore del popolo ebraico dai suoi persecutori. Poteva essere evocato pronunciando una precisa combinazione di lettere alfabetiche. Moltissime le leggende su di esso. In una di queste, si narra che nel XVI secolo il rabbino Jehuda Löw ben Bezalel di Praga, cominciò a creare golem per sfruttarli come suoi servi, plasmandoli nell’argilla e risvegliandoli scrivendo sulla loro fronte la parola “verità” C’era però un inconveniente: i golem così creati diventavano sempre più grandi, finché era impossibile servirsene. Il mago decideva di tanto in tanto di disfarsi dei golem più grandi, trasformando la parola sulla loro fronte in “morto”. Come nell’apprendista stregone, la situazione gli sfuggì di mano e solo con molta fatica riuscì a riprendere il controllo. Per cui decise di smettere di servirsi dei golem che nascose nella soffitta della Sinagoga, nel cuore del vecchio quartiere ebraico, dove, secondo la leggenda, si troverebbero ancora oggi.

THE GOLEM: HOW HE CAME INTO THE WORLD (1920) — Paul Wegener, Carl Boese

Questa leggenda ci fa intuire che oggi non abbiamo la concezione che i semiti attribuivano al nome e perciò spesso non afferriamo bene il valore preciso di certe espressioni bibliche. Per gli ebrei e per la Bibbia il nome era qualcosa di ben più importante di quello che noi occidentali diamo adesso. Il nome per gli ebrei presentava l’essenza stessa della persona, la sua natura, la sua forza, la sua attività. Per la Bibbia, chi non ha un nome non esiste. Dio genera il creato semplicemente pronunciando il nome dei suoi molteplici elementi: “Dio disse: ‘Sia luce!’ E luce fu” .Giobbe, per indicare la massima abiezione della plebaglia afferma: “Gente da nulla, razza senza nome”. La punizione divina degli empi è espressa dicendo che il loro nome sarà eliminato: “Tu hai rimproverato le nazioni, hai fatto perire l’empio, hai cancellato il loro nome per sempre”. I giusti però sussisteranno per sempre: “Io (Dio) non cancellerò il suo nome dal libro della vita”. Per la Bibbia, conoscere il nome di qualcuno, è conoscerne la natura, è avere dominio su di lui partecipando alla sua potenza. In Mesopotamia e in Egitto il nome era strettamente associato alla magia: conoscere il nome di Dio era disporre in qualche modo della sua potenza divina. Per questo motivo, per evitare di praticare magia, era proibito pronunciare il nome di Dio invano. Quando Mosè domanda a Dio di rivelargli il nome a colui che gli parla dal roveto ardente, Dio risponde sostanzialmente picche (Io sono colui che è), nome che dice sostanzialmente tutto e niente. Indica sostanzialmente che Dio è una creatura fuori dal tempo, che è, che non fu e non sarà. Nella Bibbia il nome agisce come se avesse una forza propria e questo è vero anche nel Nuovo Testamento. Gesù (Yeshùa) indica appunto che “Yah salva” ovvero “Dio salva”. Questo nome, essendogli stato dato da Dio mediante un angelo, significava che Yeshùa non apparteneva a se stesso, ma a Dio. È per questo che il suo compito era quello di compiere totalmente la volontà di Dio.

mosè io sono colui che sono

Questo valore magico dei nomi ovviamente influenzò la cultura Cristiana. “Nomina sunt consequentia rerum” (ll nome delle cose è strettamente collegato alla loro natura) è infatti una frase originata da un passo di Giustiniano e poi ripresa da Dante nella vita Nuova. Dobbiamo aspettare qualche secolo perché si affermi in Occidente un’idea opposta e più moderna. Shakespeare fa dire a Giulietta “What’s in a name? That which we call a rose by any other name would smell as sweet” (cos’è il nome? Anche se uno chiama la rosa con un altro nome, questa continuerà a profumare lo stesso). Ed è questo il concetto di nome che abbiamo attualmente. Da segnalare, però, un capovolgimento della frase di Giulietta nella spassosa commedia di Oscar Wilde “The Importance of Being Earnest”. Wilde, criticando l’ipocrisia della società Vittoriana, conclude la commedia dicendo che è più importante chiamarsi Ernesto che essere onesti (parole che in Inglese si pronunciano allo stesso modo). Mentre nella cultura ebraica forma e sostanza erano fortemente connesse, mentre per Shaskespeare la sostanza è tutto rispetto alla forma, per la ipocrita società borghese inglese dell’epoca di Wilde, la forma è tutto e la sostanza non conta. Come si vede da questo breve excursus, la cultura cristiana-occidentale è fortemente interconnessa con quella ebraica. Appena uno scopre ciò, non può proprio materialmente avere sentimenti antisemiti. Si può criticare ovviamente il Governo e i Governanti Israeliani, ma non si può odiare il popolo Ebreo in quanto tale. E’ la cultura il miglior antidoto (forse l’unico) all’odio razziale.

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