Opinioni
Come finirà il ricatto gialloverde all’Europa sul debito pubblico (spoiler: male)
di Lucio Di Gaetano
Pubblicato il 2018-08-22
Se la nomina di Paolo Savona al Ministero degli Affari Europei ha privato i cantieri romani di un umarell di altissimo profilo, in compenso ha donato alla Nazione un Ministro capace di mescolare comicità, confusione e surrealismo che “Bunuel levati e trovati un altro lavoro”. È di ieri l’ultima perla, quando ha cominciato a girare nel […]
Se la nomina di Paolo Savona al Ministero degli Affari Europei ha privato i cantieri romani di un umarell di altissimo profilo, in compenso ha donato alla Nazione un Ministro capace di mescolare comicità, confusione e surrealismo che “Bunuel levati e trovati un altro lavoro”. È di ieri l’ultima perla, quando ha cominciato a girare nel fantastico mondo dei trollazzi sovranari il leak di una bozza (autentica) di resoconto stenografico dell’intervento del nostro ministro ex-eurista, ex-europeista, riscopertosi rossobruno in tarda età, innanzi alle commissioni congiunte di Camera e Senato: nel documento si vagheggia un possibile intervento a sostegno del debito pubblico italiano da parte del governo russo, con un tono che sembra suggerire la possibilità di un’alternativa alla carità cristiana sinora proveniente da Francoforte.
Sembrerebbe solo una ridicola boutade (al pari del famoso “Piano B”, ovvero “se vedemo sabato, dopo l’aperitivo e prima daa pizza, ridenominamo er debito in Lire e sticazzi), ma a ben vedere si tratta solo dell’ultima di una serie di dichiarazioni che sembrano disegnare una strategia, a questo punto, banale quanto consolidata: il ricatto alle istituzioni comunitarie. Un ricatto che si avvale di due tipi di minaccia:
1) “Non intendiamo rispettare le regole europee, e se provate a fermarci siamo pronti a uscire dall’Euro e generare un disastro che danneggerà tutta l’Unione, ivi inclusi gli Stati virtuosi”
2) “Non intendiamo rispettare le regole europee e non temiamo conseguenze finanziarie rilevanti perché troveremo qualcun altro che ci aiuterà al posto della Commissione e della BCE”.
Un approccio molto diverso da quello fino ad oggi seguito dai governi di centrosinistra e centrodestra, che in passato ottennero spazi di bilancio (aka “flessibilità”) attraverso un accorto e silenzioso approccio diplomatico, promettendo – e spesso furbescamente non mantenendo – responsabilità finanziaria e riforme strutturali e, da ultimo, incaricandosi della difficile gestione delle frontiere meridionali dell’Unione. Da oggi però si cambia.
Secondo gli eroi Gialloverdi, la flessibilità la otterremo minacciando la distruzione dell’Euro, commentando sarcasticamente le presunte abitudini sessuali di Macron, accusando la Merkel di nazismo, invocando l’aiuto del principale nemico della Nato, facendo accordi con gli altri leader razzisti e straccioni che da vent’anni vivono dell’elemosina tedesca (cfr. ad es. Orbàn).
Anzi a sentire Caludio Borghi otterremo ben di più! Secondo i molteplici tweet del leader dei sovranari, Draghi e il board della BCE non avrebbero ormai vie d’uscita e il loro stato d’animo dovrebbe essere più o meno questo:
Come finirà? Beh, forse è ancora presto per dirlo, però sarebbe bene recuperare la lucidità e rammentare che stiamo chiedendo, come abbiamo sempre fatto negli ultimi 20 anni, nient’altro che carità: con l’unica sostanziale novità di farlo in maniera spocchiosa, alternando velate minacce a strepiti e insulti e illudendoci che i partner europei abbiano da perdere quanto se non più di noi.
Per provare a prevedere il futuro può essere il caso, a tal proposito, di dare un’occhiata ai precedenti. Ne abbiamo due.
Il primo è l’ormai grande classico della negoziazione internazionale realizzato dal Governo Tsipras, il quale, dopo aver raggiunto un buon accordo con Juncker, ebbe la brillante idea di alzare la posta e fare un referendum credendo di ottenere nuove concessioni grazie alla rabbia popolare: finì che i tedeschi, i francesi e la Commissione UE, sino ad allora piuttosto disuniti, si incazzarono, fecero muro, stracciarono l’accordo sottoposto a referendum e imposero condizioni ben più gravose che il governo greco dovette accettare, dimissionando il ganzissimo eroe della trattativa muscolare Yanis Varoufakis.
Il secondo esempio si sta realizzando sotto i nostri occhi in questi mesi e riguarda la Brexit (caso diverso per oggetto e dimensione, ma assai simile sul piano politico): Theresa May, partita a spron battuto con l’intenzione di strappare il mantenimento della libertà di circolazione di merci e capitali tra UE e GB, limitando solo quella di circolazione delle persone “perché tanto ci perdono anche loro”, si è trovata davanti alla triste realtà di uno scontro impari tra un Paese che produce solo fish & chips e un intero continente che può farne tranquillamente a meno e non sta facendo nulla per evitare la c.d. “Hard Brexit”.
Guardando ai precedenti, insomma, la linea dell’Unione sembra essere il classico e saggio “do not negotiate with terrorists” contro il quale gli addominali balneari di Salvini e le dirette facebook di Di Maio potrebbero non bastare. Così conducendo il Paese all’esito più probabile: una clamorosa marcia indietro e l’improvviso rinverdirsi della tradizione di genuflessione e preghiera nella quale il nostro Paese ha sempre dimostrato di eccellere. Stiamo a vedere.