Boris Johnson è già una stella cadente?

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2019-09-04

Quella di ieri non è stata una sconfitta qualsiasi per il nuovo premier britannico Boris Johnson

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Martedì 3 e mercoledì 4 settembre possono essere considerati i giorni più compulsivi per il futuro politico di Boris Johnson, controverso esponente del partito Conservatore diventato a furor di popolo primo ministro del Regno Unito dopo la caduta di Theresa May, successore di David Cameron, entrambi caduti per via della Brexit, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Johnson è da sempre uno dei principali artefici del “leave” prima e dell’Hard Brexit poi, e in passato ha etichettato come poco favorevole (da «stato vassallo», ndr) l’accordo siglato dal precedente esecutivo a guida Theresa May. Le sue linee guida, fortemente euroscettiche, che lo hanno condotto lo scorso 24 luglio al vertice del Paese grazie al voto “postale” (è stato votato leader per posta dagli iscritti del partito Conservatore, ed è diventato automaticamente premier) è stata quella di portare il Paese fuori dall’Ue ad ogni costo, «do or die», entro il termine del 31 ottobre, sette mesi dopo quanto inizialmente stabilito in base all’articolo 50 del trattato di Lisbona, secondo cui, dalla richiesta all’effettiva uscita dai trattati europei, con o senza accordo, devono intercorrere due anni, durante i quali possono essere stabilite condizioni di uscita più favorevoli. Il termine, inizialmente previsto per marzo, è stato posticipato ad aprile e poi prorogato di sei mesi.

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Boris Johnson è già una stella cadente?

Ieri Johnson, visto il clima ostilità in Parlamento per via della pausa forzata di 25 giorni (la prorogation), giudicata però oggi legale da un tribunale scozzese, ha osteggiato l’ipotesi di andare a Bruxelles il prossimo 17 ottobre con il cappello in mano e chiedere ulteriore tempo. Tutto questo dopo mesi di bagarre in aula e continue baruffe politiche bipartisan che non hanno portato a nulla di concreto in un momento fondamentale per la vita democratica del Regno Unito. Johnson non solo ha rifiutato l’ipotesi di chiedere un’ulteriore proroga fino al 31 gennaio, ma ha rilanciato ventilando nuove elezioni per ottobre se sarà necessario e se verrà promulgata la legge anti no-deal, relegando così a una nuova maggioranza, molto probabilmente più favorevole alla Brexit, la decisione su come traghettare il Paese fuori dal labirinto Brexit e nel miglior modo possibile. La strada verso le urne, di cui si discuterà stasera, ma che non è escluso arrivi la prossima settimana, però, sembra irta di ostacoli. La via è secondo molti analisti legata al”no deal bill”, la legge che obbligherebbe il governo a chiedere ulteriore tempo per definire un’uscita ordinata (soft brexit). Una soluzione ritenuta dagli economisti meno dannosa per le casse pubbliche e per l’economia della Gran Bretagna e dell’Unione Europea. L’appuntamento principale è previsto per oggi, in tarda serata. Se, come probabile, la proposta di “no deal bill” oggi verrà approvata, la legge passerà alla camera dei Lord, che può emendare ma non rigettarla in toto. il “no deal bill” nei prossimi giorni potrebbe subire un’accelerazione, diventando legge entro lunedì 9 settembre, prima della shut down del 14 ottobre, quando il Parlamento si fermerà in attesa del cerimoniale di inaugurazione del nuovo Governo, sempre più sui carboni ardenti. Solo dopo questo passaggio lo scenario delle nuove elezioni appare possibile. Oggi Johnson ha negato di voler rassegnare le dimissioni. Questo scenario però complica terribilmente la vita politica del leader conservatore e del suo neonato esecutivo, relegando l’ex ministro degli Esteri dinanzi a diverse opzioni: 1) sperare spuntarla facendo passare la sua richiesta di andare ad elezioni anticipate prima dell’ormai imminente deadline; 2) non rispettare quanto eventualmente sancito dal Parlamento, ottenere ugualmente l’hard Brexit e andare incontro ai rischi politici del caso; 3) piegarsi al volere del Parlamento evitando l’hard Brexit ad Halloween e cercando al contempo di riallacciare i rapporti con i dissidenti fronteggiando al meglio le opposizioni; 4) andare a nuove elezioni nonostante non abbia mantenuto quanto promesso; 5) cedere il passo. Di queste solo la prima sarebbe coerente con l’ascesa di Johnson, mentre la seconda potrebbe comunque rappresentare il tramonto per lo scapestrato leader conservatore.

Cos’è successo ieri a Westminster?

Nella tarda serata di mercoledì 4 c’è stato un voto cruciale per le sorti della Brexit. Il Governo ha perso il controllo dell’agenda parlamentare per 328 voti a 301, una manciata di voti peggio di quanto previsto. Ma meglio rispetto alle conte dei dissidenti fatte prima dell’estate. Perdere il controllo delle attività parlamentari significa anche evitare nuove elezioni e imporre al primo ministro di chiedere ai suoi omologhi europei una proroga fino al 31 gennaio, durante il vertice del 17 ottobre, senza però sottolineare che allo stato attuale non ci siano particolari margini di trattativa. Questo scenario, che rischia di risultare per Johnson la più breve luna di miele della storia della politica britannica, rende più difficile un voto anticipato per martedì 15 ottobre, visto che dal 2011, per indire elezioni prima della naturale scadenza della legislatura, prevista per il 2022, è necessario il consenso dei due terzi della House of Commons. Va detto che il Governo potrebbe superare questo ostacolo con una semplice legge. Il partito Laburista, il principale partito di opposizione, è abbastanza ondivago sulla possibilità di votare nei prossimi giorni la chiamata alle urne sospirata dal premier conservatore, soprattutto perché in ballo c’è il “no deal bill”, presentato dal parlamentare laburista Hilary Benn e sostenuto da tutti i partiti di opposizione, e perché seguire Johnson equivarrebbe ad aprire una nuova legislatura senza avere la certezza di poter evitare il no deal, uno spauracchio per le linee guida di Corbyn, per i LibDem, ma anche per i ribelli conservatori che si sono accodati alle opposizioni. Una nutrita schiera di parlamentari che forse spera di uscire dall’impasse anche grazie ad un nuovo mandato referendario.

Boris Johnson sta perdendo il controllo del Partito e del Governo?

Quella di ieri non è stata una sconfitta qualsiasi per il nuovo premier britannico. Johnson ha infatti tolto la frusta ed estromesso dal partito ben 21 parlamentari conservatori, tra cui ci sono esponenti di spicco del partito tra cui: Kenneth Clarke, più volte ministro e “padre della Camera” ossia il parlamentare in carica più longevo visto che siede tra i banchi della camera bassa del Parlamento dal 1970. Il “party whip” è una misura disciplinare estremamente dura, che solitamente si attribuisce a chi viola le linee guida del partito in momenti cruciali per la vita politica del governo o del partito. Oltre a Clark è stata messa tra gli indipendenti fino a data da destinarsi anche Justine Greening: ex ministro dell’Educazione, dello Sviluppo internazionale e dei Trasporti durante i governi May e Cameron, che ha definito il no deal «la più profonda misura non conservatrice che si possa avere». Tra gli “espulsi” un altro esponente molto legato all’ex premier Cameron, Sir Oliver Letwin, oggi una delle figure guida tra i ribelli conservatori, e che ieri ha definito quella di Johnson «una strategia non credibile» ribadendo il concetto che finora non è stata data una «singola indicazione per rimpiazzare il backstop nord-irlandese, il punto più controverso tra quelli inseriti nell’accordo di Theresa May visto il rischio di spaccare l’unità nazionale 8 (e la pace) che comporta. Poco importa che Johnson abbia pianificato di visitare il suo omologo Leo Varadkar, a Dublino, la prossima settimana, probabilmente in cerca di una scelta condivisa. Sulla stessa linea di Letwin c’è anche Philip Hammond, ex cancelliere dello scacchiere (il titolare delle Finanze) del precedente Governo May, e leader dei ribelli, che ieri ha accusato di ipocrisia il suo ex collega esortandolo a rendere noti i dettagli delle alternative che chiederà a Bruxelles. Se l’estromissione di Nicholas Soames, dell’anziano nipote di Winston Churchill appare molto simbolica, molto pragmatica e problematica è invece la perdita di uno dei suoi parlamentari, Philip Lee, passato tra le fila dei LibDem, un partito europeista e in forte ascesa grazie anche al nuovo leader Jo Swinson, la cui defezione ha di fatto messo in minoranza il governo, cancellando la labile maggioranza aritmetica che il Governo ha ereditato dal precedente governo (di appena un voto). Il “salto della quaglia” di Lee, che ha accusato Johnson di «mettere a rischio vite e mezzi di sussistenza», ha formalizzato la mancanza di numeri del governo Johnson, ma non apporta una contestuale caduta del Governo, visto che non è stata avviata nessuna mozione di sfiducia. Numeri e posizioni alla mano, sembra sempre più evidente che sotto traccia si stia consumando una battaglia tra l’ala più moderata del partito Conservatore, che ha contraddistinto gli ultimi decenni del maggior partito politico della destra inglese, e quella più oltranzista, che ha affossato il precedente esecutivo e che sostiene l’attuale governo. Ma «un timoniere di valore continua a navigare anche con la vela a brandelli» scriveva Seneca.

EDIT: In serata la legge “no deal bill” è passata 327 voti a favore contro 299 contrari in seconda lettura e 329 contro 300 in terza lettura. Mentre la richiesta di Johnson di elezioni anticipate per il 15 ottobre non ha raggiunto il quorum di 434 voti, fermandosi a 298 voti favorevoli, 56 contrari e 288 astensioni.

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