Opinioni
The Italian Lockdown – Cronache da un Paese in Quarantena: 20. Una giornata particolare
di Lorenzo Favella
Pubblicato il 2020-04-03
Una festa all’improvviso. Musica, canti e balli fino a sera. Poi, la falce riprende a mietere. Una corsa fino a Guastalla, le ultime parole di Alberto. Il mare. Venerdì, 3 aprile 2020. Mi sveglio e qualcosa là fuori è cambiato. Sento mia madre che chiacchiera con una vicina, giù in basso, lungo la via. E’ […]
Una festa all’improvviso. Musica, canti e balli fino a sera. Poi, la falce riprende a mietere. Una corsa fino a Guastalla, le ultime parole di Alberto. Il mare.
Venerdì, 3 aprile 2020.
Mi sveglio e qualcosa là fuori è cambiato.
Sento mia madre che chiacchiera con una vicina, giù in basso, lungo la via. E’ uscita a fare la spesa da sola, incredibile. Apro la finestra e scopro che tutta la via è un fiume, gente variopinta, gente mai vista prima, acrobati e giocolieri, un carnevale in piena regola.
Mentre mi vesto, la tv in salotto è rimasta accesa. Oggi doveva essere il giorno della fine del Lockdown, poi il governo l’ha procrastinato sine die, ma evidentemente è successo qualcosa.
Non perdo tempo a seguire le solite chiacchiere e scendo per strada. C’è musica, corso Cavour è in festa. Ha riaperto la Galera e ha messo i tavolini fuori. Servono da bere per tutti. Tutti ubriachi e non sono nemmeno le undici del mattino.
Circolano trattori con i carri per l’uva, come in periodo di vendemmia. A bordo, solo musicisti che cantano. E tutti dietro, che seguono e si inseguono e si abbracciano e ballano, senza sosta.
Un ragazzo e una ragazza, rimasti separati nel periodo di quarantena, corrono uno verso l’altra, prendono a baciarsi e non si staccano più.
Arrivo all’altezza del teatro, le porte sono aperte. All’interno, un viavai di attori che si susseguono sul palco, ognuno con un pezzo da recitare, tra lanci di coriandoli e uova, palloncini e risate.
Ma non ho voglia di restare al chiuso e torno fuori. “Angela!” sento chiamare. Su un carro, trovo Giulio e il Drago e il Nerchia. Mi invitano a salire, c’è un basso pronto anche per me. Riprendiamo a suonare i pezzi di un tempo ed è come se non avessimo mai smesso.
Un gruppo di aficionados ci segue, conoscono ogni parola a memoria e devo dire che sì, in fondo, non eravamo niente male. Da oggi si ricomincia, là dove ci eravamo interrotti. Niente e nessuno più ci fermerà.
Qualcuno cade a terra. Si rialza e poi ricade. Poi un altro e un altro ancora. Nulla sembra fermare quel bailamme. Poi, man mano, nel pomeriggio, la situazione si fa seria. La gente crepa, cantando a squarciagola. Anche noi, a poco a poco, non reggiamo più. Giulio è il primo a stramazzare al suolo, il Drago fa altrettanto, solo il Nerchia seguita a pestare i tamburi, non so per quanto altro tempo ancora.
Raccolgo una chitarra e salto giù dal carro. La uso a mo’ di clava, per difendermi da chi si para davanti, per abbracciarmi. Tanti si baciano ancora e poi si lasciano cadere, ebbri di gioia e di qualcos’altro, di terribile, che si respira e si nasconde nell’aria, come il polline che a primavera ti faceva venire l’allergia.
Una follia contagiosa che non risparmia nessuno. Raggiungo la Clio, rimasta ferma da un mese, ormai. Infilo la chiave e prego perché il motore si riaccenda. Stacco la radio, l’aria condizionata, e al terzo tentativo, sì! Riparte.
Punto verso Guastalla, tra auto incidentate che sporgono da dentro i fossi ed altre, abbandonate, con i guidatori riversi sul volante. Alcune volanti della polizia sfrecciano non si sa bene in quale direzione o perché. Non ci sono posti di blocco, tutto è andato a ramengo.
Arrivata all’ospedale, la situazione è ancora più seria. I pazienti escono dai reparti, in libertà. Ciondolano per strada come zombie, senza sapere dove andare. Alcuni militari, protetti dietro le loro camionette, sparano ad alzo zero, senza pietà, freddandoli uno ad uno.
Cerco un’entrata secondaria. Mi faccio largo tra quelle facce esangui, sempre armata di chitarra. Un vecchio alto due metri mi sbarra il passo. Chiede aiuto, vorrebbe abbracciarmi, non sa dove andare, povero cristo. Lo colpisco alla testa, che si stacca e rotola via, lungo il corridoio.
Guardo le indicazioni, alla ricerca del reparto di chirurgia. Finalmente lo trovo. Sono tutti morti e non c’è nessuno a cui chiedere. Mi chiedo perché sia andata fin lì, è davvero inutile, poi d’un tratto lo vedo, Alberto.
Seduto a terra, le spalle al muro, il laccio stretto sull’avambraccio, si inietta una siringa. E’ morfina, mi dice. Una dose massiccia che lo spedirà all’altro mondo.
“No!” grido.
“Salvati almeno tu, se puoi” mi sussurra, la faccia sfatta, gli occhi così belli, ormai spenti.
Come? Come? Come? Ripeto più volte.
Dice che le donne hanno più possibilità di sopravvivere. Dice di andare al mare, non so perché, non me lo spiega. La testa cade riversa, lo schiaffeggio, lo prendo per le guance. “Resta con me” lo imploro. Non mi risponde più.
Fuori, gli spari si susseguono. Devo per forza trovare nuovamente l’uscita secondaria, se non voglio farmi ammazzare. Ma i corridoi degli ospedali sono tutti uguali. Con la chitarra, spacco un vetro ed esco fuori, in qualche modo. La macchina la ritrovo abbastanza agevolmente. Rimetto in moto e parto.
Il mare, ha detto Alberto. Senza spiegare perché. Conosco un posto, una casa, affacciata sul golfo della Spezia. La casa della Rina. Dove io e Luciano, da bambini, passavamo interminabili estati, assieme a nostra madre, con nostro padre che ci raggiungeva di tanto in tanto, quando il lavoro glielo permetteva.
Negli anni, non ricordo neanche più quante case ho cambiato, ma quella esiste da quando ho memoria di essere venuta al mondo. Esisteva anche prima, in realtà, perché mia madre, da ragazza, aveva preso ad andarci con sua nonna, quando i medici invitavano gli anziani a respirare un po’ di aria buona, al mare.
Arrivo che è notte fonda. Parcheggio vicino alle barche che, d’inverno, vengono tirate su dal mare. Mi ricordo che, alla casa della Rina, non ci si può arrivare con la macchina. Bisogna salire su per un carruggio. La creuza de ma’ che spacca in due il paese. Ritrovo la casa, ma il cancello è chiuso, impossibile da scavalcare. Suono al campanello, nessuno risponde. So che la Rina non c’è più. Ci ha lasciati lo scorso natale, risparmiandosi lo strazio che è venuto poi.
Non so se ci abiti più qualcuno.
Guardo in alto e mi chiedo se sia possibile raggiungere la terrazza che dà sul vicolo, davanti alla scuola, ma ci vorrebbe almeno una corda per arrampicarsi su per il muro. Non saprei dove trovarla.
Il paese è vuoto, pare abbandonato. O forse solo addormentato. Non ci sono morti per la via. Torno giù, per dormire in macchina. Vengo catturata dalle prime luci dell’alba e lascio perdere, tanto non ho sonno.
Mi incammino lungo il sentiero che passa sotto il castello e raggiunge una spiaggetta incavata tra la le rocce. L’acqua è uno specchio scuro, appena mosso da frammenti di onde che si mescolano al bagnasciuga.
Mi levo i vestiti, abbandonandoli sulla sabbia. Ho i brividi, dal freddo. Non mi importa. L’acqua del mare intirizzisce ancor di più. Ma ho fatto il bagno in Scozia, una volta, e sono sopravvissuta.
Due passi dentro l’acqua e mi tuffo. Il gelo mi avvolge e prendo a nuotare, più forte che posso. A poco a poco, il corpo si scalda, si fonde col mare. Prendo fiato, con il cuore in gola. Guardo la luna, appesa in cielo, oltre la torre del cancello, e poi via, riprendo con le bracciate.
E nuoto, nuoto, nuoto, come se volessi raggiungere l’isola della Palmaria che si scorge buia, lontana all’orizzonte. Ed è nuotando così, per sentirmi viva, che spero di scomparire e non tornare mai più a riva.