Quando Di Maio era liberista e amava la flessibilità

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2018-09-12

Solo gli stolti non cambiano mai opinione. Eppure nella drastica conversione del ministro del Lavoro che nel 2010 predicava a favore della flessibilità e di un’economia di mercato senza nazionalizzazioni si può scorgere il paradigma della politica “postideologica” a 5 Stelle: va bene tutto pur di andare al governo

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Oggi che è ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio è impegnato a condurre una battaglia frontale contro flessibilità e liberismo. Da quando è al governo Di Maio si è battuto, con il decreto dignità, a  fianco dei lavoratori precari della Gig Economy. Dopo il disastro di Genova e il crollo del Ponte Morandi si è speso contro le privatizzazioni invocando la nazionalizzazione di Autostrade. In questi giorni invece il ministro è andato all’attacco del lavoro domenicale nei centri commerciali, proponendo lo stop alle aperture dei negozi la domenica.

Luigi Di Maio, dall’elogio della flessibilità alla lotta contro il Jobs Act

Qualcosa però nelle decisioni del governo e dei voltafaccia del vicepremier pentastellato (ad esempio quello clamoroso – rispetto alle promesse elettorali – sull’Ilva) dovrebbe quantomeno invitare alla prudenza tutti coloro che continuano a vedere nel MoVimento 5 Stelle un argine al capitalismo e al liberismo sfrenato. Non solo perché perché il M5S, in quanto partito “post-ideologico”, ha dato prova di volere tutto e il contrario di tutto ma anche perché il suo Capo Politico qualche anno fa la pensava in maniera diametralmente opposta sul lavoro flessibile. Scriveva nel 2010 il giovane futuro vicepremier che “in Italia non abbiamo mai assimilato il concetto di flessibilità”. Un utente Twitter (@Mr_Gredy) ha scoperto che lo scriveva sulla rivista degli studenti della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli.

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Fonte via Riccardo Puglisi

In quel vibrante pezzo di bravura in difesa del liberismo Di Maio definiva “amarcord” quello di Tremonti sul posto fisso. Non male per uno che si trova oggi, ad otto anni di distanza, a guidare l’esecutivo della nostalgia. Quello che vorrebbe tornare ai gelati che c’erano quando c’era la lira, ai flipper, alla naja, alle malattie infettive prima delle vaccinazioni, e – diciamocelo – ad un’Italia più ingenua e pura (leggasi: senza immigrati tra le palle).

Quando Di Maio criticava le nazionalizzazioni

Il giovane Di Maio nel suo articolo ci va giù duro. La colpa è sempre dei vecchi partiti (il famigerato pentapartito) che hanno pur cercato «di avviare il nostro modello economico verso quello liberale». Ma mentre «creavano leggi per flessibilizzare il lavoro» non creavano le condizioni in base alle quali la nostra economia avrebbe potuto «obbedire alla prima regola del mercato liberale:
domanda/offerta». Perché? La spiegazione del futuro ministro è semplice, la classe politica «ha continuato a “drogare” il nostro mercato con incentivi alle aziende (sedicenti) in crisi, con “la nazionalizzazione” delle aziende fallite o con la creazione di condizioni concorrenziali che avrebbero fatto rabbrividire qualunque antitrust del mondo».

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Di Maio faceva anche qualche esempio delle storture. Una su tutte? Alitalia le cui vicende il vicepremier spiegava così: «Alitalia, che in una normale economia liberale sarebbe stata acquistata dal miglior offerente (air france), invece è stata salvata con fondi statali e poi fatta sembrare “l’operazione finanziaria di una cordata di imprenditori”, che tra l’altro ha causato il licenziamento di più dipendenti di quelli previsti dal piano air france (7000 contro 3000)». È lo stesso Di Maio che avrebbe voluto riaprire la gara sull’Ilva per cederla ad una società controllata dal Cassa Depositi e Prestiti o che tramite l’house organ del suo partito prometteva che avrebbe fatto chiudere lo stabilimento siderurgico? Sì. È lo stesso che è al governo con Danilo Toninelli, il ministro che se ne uscì con l’idea di far tornare il 51% di Alitalia di proprietà dello Stato? È sempre lui.

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Di Maio conclude il suo inno all’economia di mercato spiegando che «è stato dimostrato, anche in crisi precedenti a quella attuale, che i modelli economici più flessibili sono quelli che riescono a superare facilmente le difficoltà, proprio perché favoriscono maggiori livelli occupazionali, e soprattutto favoriscono una vera mobilità». Purtroppo, concludeva sconsolato, «in Italia, la flessibilità è sempre stata solo uno slogan». Oggi invece Di Maio vuole chiudere i negozi la domenica. Il problema ovviamente non è che il ministro abbia cambiato idea, in fondo all’epoca aveva appena 24 anni, il problema è la facilità con la quale si è posizionato sulla sponda opposta. Otto anni fa Di Maio, già in attività con il MoVimento 5 Stelle (si era candidato alle comunali di Pomigliano D’Arco) spiegava che il privato non deve più essere serbatoio elettorale. Due giorni fa condivideva un comunicato stampa di Eurospin a sostegno del suo progetto di vietare le aperture domenicali. Qualcuno potrà dire che finalmente Di Maio si è accorto di cosa è meglio per gli italiani. Le malelingue invece diranno che il vicepremier è una banderuola pronta a cambiare opinione pur di andare al potere. Il dubbio rimane: cosa pensa veramente Luigi Di Maio?

Leggi sull’argomento: Cosa succederà all’e-commerce con la legge sulle chiusure domenicali?

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