Opinioni
Una storia emiliana, anzi due
di Lorenzo Favella
Pubblicato il 2020-10-30
Nell’estate del ’92, avevo concluso il mio biennio di studi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e con quello si era interrotta la borsa di studio da 600mila lire al mese che mi aveva permesso di tirare avanti. Ero salito su a Correggio per fare la vendemmia e mettere qualche soldo in saccoccia, in […]
Nell’estate del ’92, avevo concluso il mio biennio di studi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e con quello si era interrotta la borsa di studio da 600mila lire al mese che mi aveva permesso di tirare avanti.
Ero salito su a Correggio per fare la vendemmia e mettere qualche soldo in saccoccia, in procinto di tornare nella Capitale. Non ricordo come, venni a sapere del memoriale pubblicato da Germano Nicolini, che subito andai a comprare, per poi leggerlo avidamente, nelle sere in cui rientravo dal lavoro nei campi. Non sapevo nulla della sua storia. Nel corso degli anni, era stata via via dimenticata, o almeno così era la mia sensazione, all’epoca.
Terminata la vendemmia, trovai il modo di andargli a parlare. Non ricordo come si stabilì il contatto, ma in paese, si sa, tutto è più semplice. Ricordo bene, invece, il pomeriggio che passammo assieme, a casa sua. Io avevo 27 anni e lui 72 (stando alla tessera dell’ANPI).
Ero un giovanotto qualsiasi, di belle speranze, aspirante sceneggiatore, mentre lui risultava ancora un assassino, per lo stato italiano. Amnistiato, ma privo dei diritti civili. Non poteva andare a votare, per dire. Cosa che, per un convinto democratico come lui, rappresentava una pena indicibile.
Parlammo assieme per ore ed ore. Della sua storia, oggi, sappiamo tutto e non c’è molto da aggiungere. Nell’immediato dopoguerra, il parroco di una piccola chiesa nella frazione di San Martino, Don Pessina, venne freddato a colpi di pistola. Germano Nicolini, ex comandante partigiano, nome di battaglia Diavolo, allora sindaco di Correggio, venne ingiustamente accusato del delitto e condannato a ventidue anni di carcere.
Nonostante ciò, ricordo con quale curiosità si informava sul percorso che andavo a compiere, i miei studi, l’avvenire precario che mi attendeva. Era allo stesso tempo entusiasta e preoccupato. Come lo sarei io, oggi, se dovessi ritrovarmi davanti a me stesso, a quell’età.
Rientrato a Roma, scrissi di getto un soggetto sulla sua storia che, all’epoca, non era affatto nota. Cercando lavoro, venni a contatto con uno di quei pittoreschi produttori del cosiddetto sottobosco romano.
Più che produrre, pare che fosse un cravattaro, fatto sta che i soldi li aveva e pagava puntuale. Mi sganciò un assegno da due milioni di lire, come anticipo, per il trattamento di un film su Tazio Nuvolari. A cogliere grappoli in mezzo alla guazza, per un mese intero, avevo guadagnato giusto un milione e mezzo. Mi convinsi subito che lo sceneggiatore era il lavoro perfetto. Beata incoscienza.
Consegnato il trattamento su Nuvolari, misi sul tavolo il soggetto riguardo il Diavolo. Devo dire che quel produttore, sarà pure stato un cravattaro, lo lesse immediatamente e mi chiamò il giorno dopo.
“A Favella – mi disse – Tu me stai a racconta’ ‘na storia d’un comunista, messo in galera da un poliziotto fascista che torturava i testimoni, co’ la complicità der vescovo!” Così è andata, replicavo. “E sarà pure andata così, ma m’ooo dici ‘ndo trovo i sordi per produrre sta robba?”
Il giorno dopo, sul giornale, un noto editorialista protestava per l’ennesima volta contro la dannazione dovuta all’egemonia culturale della sinistra nel nostro Paese. Buttai quel giornale nel cassonetto e non lo comprai più. Avevo tutto il futuro davanti a me. Inutile sprecarlo, leggendo boiate.
Tre anni dopo, nel ’95, il Diavolo venne scagionato da ogni accusa, a quarant’anni dalla sentenza che lo aveva spedito in carcere. A volte, le storie hanno davvero un lieto fine. Basta portare pazienza, diceva Giobbe.
Sabato scorso, ci ha lasciato.
Intanto, all’inizio di quest’anno sciagurato, mentre in varie zone della Lombardia gli ospedali diventavano focolai, colposamente responsabili del tragico numero di mortalità che ne sono derivate, in quello stesso spicchio dell’Emilia si procedeva in modo ben diverso.
Quando ancora si parlava solo di Codogno, l’allora “capo” delle Asl di Reggio (perdonatemi il termine, non sono esperto del settore) si è preso la briga di parlare ai sindaci dei comuni limitrofi, suggerendo di chiudere i pronto soccorsi.
Si sarebbe presentato indossando la mascherina, che allora si era vista solo in tv, in faccia ai Cinesi, e tutti a chiedersi: ma questo è impazzito? Era serissimo, invece. Pare che non si sia perso tanto in chiacchiere, affermando che: o si organizzavano per fare come consigliava o era pronto a dimettersi, seduta stante.
E così hanno fatto, tenendo aperto giusto tre pronto soccorsi (nord, centro e sud della provincia) per le necessità sanitarie improcrastinabili. Ed è grazie a scelte come queste, se oggi a Reggio Emilia non si contano i morti come a Bergamo.
Cose che succedono nel vecchio corpaccione emiliano che ancora tiene botta, a dispetto del tempo che passa. In alcuni casi specifici, davvero bene. Mi giunge voce, infatti, che questo “capo” dell’Asl, andato in pensione a giugno, si chiama Fausto Nicolini. Figlio di quel Nicolini di cui ho già parlato. Figlio del Diavolo, insomma.