Opinioni
Mimmo Lucano al semaforo rosso
di Stefano Diana
Pubblicato il 2018-11-05
È successo tanti anni fa. Viaggiavo a notte fonda sulla via Flaminia da qualche parte tra il Lazio e l’Umbria, quando vidi a poca distanza un semaforo rosso galleggiare nel buio, in totale solitudine. Rallentai, guardai intorno con prudenza. S’era d’inverno, nel deserto delle 3 antimeridiane: in ogni dove, sulla mia via e sulla traversa […]
È successo tanti anni fa. Viaggiavo a notte fonda sulla via Flaminia da qualche parte tra il Lazio e l’Umbria, quando vidi a poca distanza un semaforo rosso galleggiare nel buio, in totale solitudine. Rallentai, guardai intorno con prudenza. S’era d’inverno, nel deserto delle 3 antimeridiane: in ogni dove, sulla mia via e sulla traversa complanare, non c’era anima viva. Così con discrezione e serenità ripresi la marcia e attraversai l’incrocio. Ed ecco, di lì a pochi metri, sbucare dalle ombre la paletta di una pattuglia della Stradale che se ne stava acquattata come un gatto. Accosto. Formalità di rito. Provo a dialogare, a presentare le mie ragioni. Niente da fare. Era gente, come si dice, tutta d’un pezzo. Indifferenti alle mie timide proteste i tutori della legge mi appiopparono la multa che mi rese il momento indimenticabile. E poi mi augurarono buon viaggio con tanto di saluto militare.
L’altro giorno mi è tornato in mente questo episodio mentre pensavo a Mimmo Lucano.
Tutte le argomentazioni che ho letto o ascoltato a sostegno dell’accusa, come quella del procuratore di Locri Luigi D’Alessio o quella di Carlo Nordio sul Messaggero, dovendo riconoscere gli intenti moralmente e civilmente encomiabili dell’accusato, si basano su un principio deontologico: se c’è la legge questa va fatta rispettare, sempre. Altrimenti ci si perde nell’arbitrio, ci si smarrisce nella discrezionalità soggettiva, si va alla deriva nel mare sporco della giustizia fai-da-te.
Questo argomento echeggia il celebre dubbio di Ivan Karamazov: senza Dio e senza vita futura «tutto è permesso dunque, tutto è lecito?» La legge, nel nostro caso, prende il ruolo di Dio.
Bisogna obiettare allora che la legge non viene dal cielo. Nel migliore dei casi la legge è un prodotto imperfetto di esseri umani che cercano di farci vivere insieme con armonia ed equità, al sicuro dalle prepotenze, in modo che la libertà di ciascuno non danneggi quella degli altri. Nel migliore dei casi.
È un obbligo morale tener presente lo spirito della legge – la motivazione della sua esistenza, la sua causa finale – quando c’è da applicarla a un caso pratico. Se si trattasse di prenderla alla lettera e riempire il modulo con i dati attuali per emettere il verdetto, le macchine sarebbero sufficienti ad amministrare la giustizia. So che questo è l’ideale di tanti, e che nell’era degli algoritmi e della IA sembra a un passo dal realizzarsi. Ma so anche che le spaventose semplificazioni di questo ideale produrrebbero le mostruose ingiustizie di una società fatta su misura per le macchine, non per noi.
Perché sono passato col semaforo rosso quella notte? Perché so che la luce rossa sul palo esiste solo per far sì che le persone che affrontano un incrocio non si facciano del male, non vadano a schiantarsi l’uno contro l’altro, non si azzuffino per decidere chi passa per primo, non si ammucchino in ingorghi senza speranza. Questo è lo spirito della legge, per quanto riguarda il semaforo. Ne deriva che se io ho la certezza di non rischiare nessuna di quelle situazioni, in mancanza di miei simili con cui negoziare il transito, allora mi sento di poter passare col rosso ed avere la coscienza a posto in quanto ho rispettato lo spirito della legge, pur violandola formalmente.
Se in questo mio passare col rosso io sono abbandonato al giudizio di un ottuso burocrate, di quelli che tutti noi ci auguriamo di non incontrare mai ai nostri inevitabili incroci con le istituzioni, oppure di una macchina, come un autovelox o un algoritmo, lo spirito della legge scompare e ne resta solo la lettera, la parte più superficiale e idiota. Il risultato è che la mia libertà viene ristretta senza motivo e io subisco una pena senza avere colpa, non avendo procurato danno ad alcuno. Un meccanismo del genere, che peggiora la mia vita senza migliorarla a nessuno, è una palese manifestazione della stupidità illustrata da Carlo M. Cipolla, ed è un’antitesi dell’ottimo paretiano. È un dispositivo punitivo e antieducativo, da padre autoritario.
Al contrario di quello che dicono D’Alessio e Nordio e i formalisti loro simili, ai quali evidentemente è necessario un Padre superno, una violazione formale di una regola non comporta affatto la deriva verso l’arbitrio. La forma di una regola è limitata: la società umana è infinitamente più complessa della capacità che hanno le leggi di descriverne un buon funzionamento, e ci vuole sempre una valutazione caso per caso, con l’intervento di saggi interpreti umani, per mediare tra quelle poche parole e la immensa varianza dei fatti. La discesa verso il caos comincia in realtà quando viene violato lo spirito della legge, il principio morale profondo che ne motiva l’esistenza; ammesso che tale principio sussista, dato che la storia del diritto è piena di leggi immorali fatte per annientare e devastare, oppure semplicemente stupide.
Per questo il comportamento di Mimmo Lucano non significa nessuna deriva verso l’arbitrio. Non solo quell’uomo non ha violato lo spirito delle leggi che cercano di farci vivere in una società più equa, pur violandone qualche formalità, ma lo eleva ancora più in alto. È lui che dovrebbe essere preso a modello dalle leggi per essere migliori, non il contrario.