Opinioni
The Italian Lockdown – Cronache da un Paese in quarantena: 2. la zona rossa
di Lorenzo Favella
Pubblicato il 2020-03-12
Lunedì, 9 marzo 2020. Superati gli archi di piazza Lodi, mentre imboccavo l’accesso alla tangenziale, ho subito pensato a come fosse facile, in pochi metri, uscire da casa di mio fratello, nel cuore di Roma, per proiettarsi lungo una striscia di asfalto che poteva spingerti ovunque. Ovunque desideravi. Dalla Citta Eterna all’Infinito. La tentazione di […]
Lunedì, 9 marzo 2020.
Superati gli archi di piazza Lodi, mentre imboccavo l’accesso alla tangenziale, ho subito pensato a come fosse facile, in pochi metri, uscire da casa di mio fratello, nel cuore di Roma, per proiettarsi lungo una striscia di asfalto che poteva spingerti ovunque.
Ovunque desideravi.
Dalla Citta Eterna all’Infinito.
La tentazione di deviare verso Sud era sempre tanta, quando raggiungevi il GRA e non potevi fare a meno di ridere e ricordare, uscita dopo uscita, le beffarde strofe di Guzzanti che si prendeva beffe di Venditti.
“E se avremo una figlia poi, la chiameremo… RRROMA!”
Isoradio mescolava canzonette e bollettini sul traffico. Gli speakers ironizzavano amaramente sul fatto che, da giorni ormai, non ci fossero più aggiornamenti dalla tangenziale di Milano, solitamente critica.
Giusto in Liguria, dalle parti di Genova, risultava qualche rallentamento, tra i meandri di quella terra avvinghiata come un serpente, stretta tra mare e montagna, in un imbroglio di curve e gallerie e squarci dipinti di azzurro.
Vuoi vedere che sto virus, alla fine, servirà a qualcosa?
In rete, da diversi giorni, circolavano immagini che mostravano come il cielo fosse diventato più sgombro, dalla provincia di Hubei alla Valpadana. E che la Valpadana fosse avvolta in una nube marrone, me ne ero accorta già da tempo, ogni volta che andavo a trovare mia madre.
A Correggio, come a Roma, lasciavo la Clio parcheggiata fuori. A Roma, succedeva di trovarla spruzzata di sabbia, quando pioveva e soffiava lo scirocco che trascinava con sé le dune rosse del Sahara. Su, al paese, era merda pura, invece. Una patina nerastra, come inchiostro, nonostante il borgo fosse circondato dalla campagna, in apparenza pura.
Dopo Orte, l’autostrada torna ad essere a due corsie e diventa monotona, fino all’altezza di Arezzo. Niente Tir, niente macchine, solo pensieri. Dove si infilava sempre Jason, maledetto. Per quanto volessi scacciarlo dalla mente, era ancora lì, accanto a me. Con quei calzini bianchi che mi facevano tanto ridere, all’inizio, fino a quando non avevo imparato a odiarli. Lui e le sue manie britanniche da upper class.
A fregarmi, era stata la musica. Quel crogiolo di suoni che avevano cullato la mia adolescenza fino a spingermi all’avventura, nella perfida Albione, dove niente è come sembra.
Jason era alto, biondo, e tanto, tanto algido. Scema io, a pensare di essermi messa con la reincarnazione di David Bowie.
Cantava bene, però, anche se in fondo, con la nostra band, non siamo mai riusciti a diventare meglio dei Joy Division, che imitavamo fin troppo. Too much. E troppo Disorder alimentava le nostre vite, anche se in apparenza sembravamo perfetti, assieme. Io al basso, lui chitarra e voce e dietro una batteria elettronica.
The Blond with the Italian lass, ci dicevano. E forse già da questo avrei dovuto capire che sarei sempre stata considerata come un’ospite, da quelle parti. Anche se poi… Tutto era filato liscio, almeno fino a quando non ho perso il bambino.
A Barberino del Mugello, prima di affrontare l’Appennino tosco-emiliano mi fermo a fare benzina. Jason mi manda un messaggio.
“Are you crazy? Driving up to the Red Zone?” dice.
“Fuck off” rispondo.
Che davvero è incredibile, come ancora pensi che l’Inghilterra possa rimanere immacolata da quanto sta succedendo. Una amica tedesca, che lavora al Ministero della Salute, a Berlino, mi ha avvertito. Quello che sta succedendo in Italia, succederà in tutta Europa.
Perché da noi, per primi? Forse per la densità di popolazione, ha suggerito. In effetti è vero. In Italia, è difficile percorrere più di tre o quattro chilometri senza trovare anche solo un piccolo paesino, un bar, un benzinaio, una trattoria. E’ questo che ci rende speciali, rispetto al resto del mondo. Solo che ora…
Questa condanna finirà. Lo so. Non so quando o come, ma finirà e glielo devo spiegare per bene a mia madre, che al telefono sta scajando de brutto, come dicono a Roma.
A Sasso Marconi, la strada si stende, le montagne sono alle spalle e fra un po’ inizia la striscia a quattro corsie, la piatta strada parallela al solco della via Emilia che porta fino a Milano, dove di strisce ce ne sono altre e me ne sono fatte assai, lungo i Navigli, prima di mettere la testa posto. Vecchie storie.
Ora sono una donna, una grande, fenomenale donna dalle tette ancora dritte che ha solo un unico rammarico. Quel cazzo di gravidanza che vaffanculo non ne voglio nemmeno parlare. Già ci penserà mia madre lo so, a farmi la predica per la mia vita… com’è che la chiama, dissoluta? Ma andate tutti affanculo. Lo vedete in che merda di mondo viviamo?
E mo’ ci si mette di nuovo Jason, via whatsapp.
“Did you get home?”
“I don’t have a home anymore.”
Lo dovrebbe pure sapere, sto stronzo, dopo che mi ha confessato di aver votato a favore della Brexit, nel 2016. Non ci potevo credere. Anni passati a discutere di socialismo, unità dei popoli e poi, alla prima occasione, il britannico si tira indietro, appeso ai ritratti dei suoi avi che ancora stanno appesi in casa dei suoi genitori. Teste di cazzo, cacciate a calci in culo dallo Zimbabwe.
Uscita dal casello dell’autostrada, Carpi, mi ferma la polizia. Già lo so, che il mio piercing al naso, sopracciglio e labbra, non piacerà. Ma ho già preparato la “autodichiarazione” scaricata da internet. Risiedo a Roma e vado a Correggio, dove vive mia madre che ha settanta e passa anni e ha bisogno di me.
Levatevi dai coglioni.
Parcheggio la Clio su viale Cottafavi, dove ancora non hanno messo le strisce blu. Trascinare il trolley, fino all’imbocco di corso Cavour, per poi svoltare in via Marconi, è una questione di pochi metri.
Mia madre, non so perché, mi aspetta davanti al portone di casa, un antico ospedale del settecento dove ha trovato dimora con altri tre o quattro inquilini.
“Tuo fratello non è venuto?” mi fa.
Grazie mamma, pensavo fossi contenta di vedermi.
“Magari è meglio così. Che qui in casa abbiamo la Cinese.”
Cosa cazzo sta dicendo?
“Quella che abita al secondo piano e fa avanti indietro da Shangai, ma magari è stata pure a Wuhan!”
Già me l’immagino, mia madre, ad esplorare su google maps l’Estremo Oriente. Alzo gli occhi al cielo, e per un attimo mi pare di vederla, dietro una tenda, oltre una finestra del secondo piano. La Cinese. Che in realtà si chiama Stefania Manfredotti e abita lì da sempre. Anche se lavora spesso in Cina.
“Ho già preparato la valigia. Non è meglio se andiamo da Luciano e ce ne stiamo tutti e tre, a Roma, a casa sua?”
Vorrei bestemmiare ma non è il caso. Ho fame e non ho voglia di farmi altri 400 e passa chilometri. Questo proprio no. Magari domani.
Ad ora di cena, l’uomo dal lungo naso, che per ignote ragioni risiedeva a Palazzo Chigi, misurando le parole come al solito, annunciò che la zona rossa era estesa in tutta Italia.
Com’è bello far l’amore da Trieste in giù, mi venne da canticchiare.