Opinioni
Giorgia Meloni e Giuseppe Conte criminale
Mario Neri 05/03/2020
“Questa bulimia comunicativa del governo”, “questo fatto di voler per forza dare un segnale della propria presenza”, così come “l’assenza di una comunicazione chiara” “creano confusione” e “producono rischi enormi”: Giorgia Meloni a L’Aria che tira oggi è andata all‘attacco di Giuseppe Conte, definito come un criminale: “Non solo hanno fatto confusione, ma Conte ha […]
“Questa bulimia comunicativa del governo”, “questo fatto di voler per forza dare un segnale della propria presenza”, così come “l’assenza di una comunicazione chiara” “creano confusione” e “producono rischi enormi”: Giorgia Meloni a L’Aria che tira oggi è andata all‘attacco di Giuseppe Conte, definito come un criminale: “Non solo hanno fatto confusione, ma Conte ha proprio delle responsabilità gravissime”. “Il comportamento del ministro Speranza, invece, è tutt’altra cosa: parla quando deve parlare. Non è stato l’atteggiamento di Conte. Il mio atteggiamento è cambiato quando ho visto il premier, che nel disperato tentativo di attaccare un presidente di Regione di un partito avversario, ha detto che c’era stata una falla nel nostro sistema sanitario, trasformando l’Italia nel paese degli untori d’Europa. Sei un criminale a fare una cosa del genere. Conte ha un atteggiamento criminale verso l’Italia”.
Di cosa parla la Meloni? Quello che ha detto Conte è riferito ai primi giorni dello scoppio dell’emergenza Coronavirus a Frontiere su Raiuno, spiegando che all’origine di uno dei focolai c’è stata la gestione «di un ospedale» non in linea con i protocolli. A parlare per primo della responsabilità di Codogno era stato Massimo Galli, professore ordinario di Malattie infettive all’Università di Milano e primario al Sacco, in una lunga intervista rilasciata al Corriere della Sera nella quale spiegava così il motivo dei tanti casi di coronavirus in Italia: «Da noi si è verificata la situazione più sfortunata possibile, cioè l’innescarsi di un’epidemia nel contesto di un ospedale, come accadde per la Mers a Seul nel 2015. Purtroppo, in questi casi, un ospedale si può trasformare in uno spaventoso amplificatore del contagio se la malattia viene portata da un paziente per il quale non appare un rischio correlato: il contatto con altri pazienti con la medesima patologia oppure la provenienza da un Paese significativamente interessato dall’infezione». Il giorno dopo Galli sul Corriere ha parzialmente rettificato la sua posizione: «L’attribuzione di una responsabilità diretta e di un comportamento scorretto ai colleghi e all’ospedale di Codogno va assolutamente al di là delle mie intenzioni e delle mie convinzioni». E ancora: «È verosimile che l’epidemia non sia, nella sua origine, recentissima nell’area del Lodigiano ed è certo che la persona che si è rivolta all’ospedale di Codogno per assistenza non è colui che ha importato il virus in Italia (il cosiddetto paziente «zero», ndr). È quindi probabile che il virus sia circolato per diversi giorni prima che il caso grave numero uno si rivolgesse ai sanitari di Codogno. È altrettanto evidente che i colleghi di tale ospedale non avevano alcun elemento che li aiutasse a sospettare le cause delle manifestazioni cliniche del paziente, che non poteva essere considerato sospetto per coronavirus in base alle definizioni dell’Organizzazione mondiale della sanità». All’epoca abbiamo parlato degli errori dell’ospedale di Codogno sul Coronavirus, spiegando però che l’applicazione alla lettera della circolare ministeriale in qualche modo discolpa il nosocomio:
Il «paziente 1» entra in Pronto soccorso, per la seconda volta, alle 3.12 di notte del 19 febbraio. Trentasei ore. È il tempo trascorso tra il ritorno di Mattia in Pronto soccorso (dov’era già stato il giorno prima) e il tampone per il coronavirus. Il test viene fatto intorno alle 16 del 20 febbraio. Dopo che il 38enne, maratoneta e calciatore per diletto, passa un giorno e mezzo nel reparto di medicina. Lo vanno a trovare parenti e amici ed entra in contatto con medici, infermieri e altri pazienti. Il motivo del non aver ipotizzato subito la possibilità del coronavirus: «Non è di ritorno dalla Cina».
In realtà, le linee guida del ministero della Salute del 22 gennaio su chi va sottoposto al tampone, dicono che è da trattare come caso sospetto anche «una persona che manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato». E una polmonite per un 38enne sano e sportivo, in realtà, lo può essere. Ma la nuova versione delle linee guida ministeriali del 27 gennaio cancella quella frase e prevede controlli solo per chi ha legami con la Cina.
A quel punto, ha raccontato ieri il Corriere della Sera, il paziente 1 viene spostato in rianimazione e lì infetta i due anestesisti benché questi siano protetti dal protocollo. Ma cosa è successo all’interno dell’ospedale in quelle ore?
La prima ipotesi è chiudere il Pronto soccorso e l’ospedale tenendo dentro chi c’è in quel momento. Poi viene presa in considerazione l’idea di trasferire i pazienti in altri ospedali. Medici e infermieri del turno di notte tornano a casa convinti di cominciare un autoisolamento. E invece no: vengono richiamati più tardi, quando ci sono anche gli altri colleghi del nuovo turno. Nel corso della giornata si decide chi di loro resta e chi torna a casa. Solo a mattina inoltrata il Pronto soccorso si svuota e le porte dell’ospedale, formalmente chiuso già da mezzanotte, vengono davvero rese inaccessibili: non si esce e non si entra più. Ad oggi ci sono lavoratori che aspettano ancora l’esito del tampone.
In uno dei messaggi scambiati via WhatsApp, un uomo dall’interno dell’ospedale (che non vuole essere identificato) racconta a un amico che «è sbagliato dire che quella notte è andato tutto bene perché non è la verità. Ma era un’emergenza mai vista e non vale accusare con il senno del poi. Diciamoci soltanto la verità, e cioè che forse la gestione di quella notte poteva andare meglio, ma diciamo anche che non era facile e che tutti hanno lavorato senza risparmiarsi. E cerchiamo di imparare daglierrori».
Un medico in quarantena di Castiglione d’Adda, cittadina a poche chilometri da Codogno, racconta all’agenzia AdnKronos: «Siamo stati un po’ delle cavie. Bisogna dare ai medici delle protezioni, spero che nelle altre regioni non si facciano gli stessi errori». Ancora: «Nelle settimane precedenti c’erano state troppe polmoniti strane. Ma per il nuovo coronavirus tutto quello che dovevamo fare era chiedere agli assistiti se venivano dalla Cina, e in particolare dall’area a rischio». Forse c’è stata una sottovalutazione, forse non si è capito che in un mondo ormai sempre più piccolo un virus partito da una megalopoli cinese come Wuhan poteva arrivare anche dove meno ce lo si aspettava, nella quiete della Bassa Lodigiana.