Gli errori dell’ospedale di Codogno che hanno contribuito a diffondere il Coronavirus

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2020-02-26

Il «paziente 1» entra in Pronto soccorso, per la seconda volta, alle 3.12 di notte del 19 febbraio. Trentasei ore. È il tempo trascorso tra il ritorno di Mattia in Pronto soccorso (dov’era già stato il giorno prima) e il tampone per il coronavirus. Il test viene fatto intorno alle 16 del 20 febbraio. Dopo che il 38enne, maratoneta e calciatore per diletto, passa un giorno e mezzo nel reparto di medicina. Lo vanno a trovare parenti e amici ed entra in contatto con medici, infermieri e altri pazienti

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Lunedì Giuseppe Conte ha annunciato di voler avocare le responsabilità in materia sanitaria che spettano alle Regioni per evitare «gli errori compiuti nell’ospedale di Codogno» che, respingendo il paziente 1 senza sottoporlo al test, era diventato «focolaio d’infezione». Il governatore Fontana (Lega) aveva replicato: «Non posso tacere. Ci hanno dato dei razzisti perché prima che scoppiasse l’epidemia volevamo aumentare i controlli. Il premier ci disse “Fidatevi di me”: allora non dica che siamo noi i responsabili».

Gli errori dell’ospedale di Codogno che hanno contribuito a diffondere il Coronavirus

A puntare il dito sul problema dell’ospedale di Codogno come veicolo di infezione era stato anche l’infettivologo Massimo Galli in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera. Galli successivamente ha parzialmente rettificato la sua posizione:«L’attribuzione di una responsabilità diretta e di un comportamento scorretto ai colleghi e all’ospedale di Codogno —chiarisce l’infettivologo — va comunque assolutamente al di là delle mie intenzioni e delle mie convinzioni». E ancora: «È verosimile che l’epidemia non sia, nella sua origine, recentissima nell’area del Lodigiano ed è certo che la persona che si è rivolta all’ospedale di Codogno per assistenza non è colui che ha importato il virus in Italia (il cosiddetto paziente «zero», ndr). È quindi probabile che il virus sia circolato per diversi giorni prima che il caso grave numero uno si rivolgesse ai sanitari di Codogno. È altrettanto evidente che i colleghi di tale ospedale non avevano  alcun elemento che li aiutasse a sospettare le cause delle manifestazioni cliniche del paziente, che non poteva essere considerato sospetto per coronavirus in base alle definizioni dell’Organizzazione mondiale della sanità».

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Il paziente 1 in Lombardia (La Repubblica, 22 febbraio 2020)

Il Corriere della Sera oggi riepiloga cosa è successo all’ospedale di Codogno e perché gli errori commessi nell’occasione hanno contribuito alla diffusione del Coronavirus nel lodigiano e da lì alle altre regioni e agli altri Stati d’Europa, spiegando però che l’applicazione alla lettera della circolare ministeriale in qualche modo discolpa il nosocomio:

Il «paziente 1» entra in Pronto soccorso, per la seconda volta, alle 3.12 di notte del 19 febbraio. Trentasei ore. È il tempo trascorso tra il ritorno di Mattia in Pronto soccorso (dov’era già stato il giorno prima) e il tampone per il coronavirus. Il test viene fatto intorno alle 16 del 20 febbraio. Dopo che il 38enne, maratoneta e calciatore per diletto, passa un giorno e mezzo nel reparto di medicina. Lo vanno a trovare parenti e amici ed entra in contatto con medici, infermieri e altri pazienti. Il motivo del non aver ipotizzato subito la possibilità del coronavirus: «Non è di ritorno dalla Cina».

In realtà, le linee guida del ministero della Salute del 22 gennaio su chi va sottoposto al tampone, dicono che è da trattare come caso sospetto anche «una persona che manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato». E una polmonite per un 38enne sano e sportivo, in realtà, lo può essere. Ma la nuova versione delle linee guida ministeriali del 27 gennaio cancella quella frase e prevede controlli solo per chi ha legami con la Cina.

L’errore dell’ospedale di Codogno e la circolare del ministero

A quel punto, racconta ancora il quotidiano, il paziente 1 viene spostato in rianimazione e lì infetta i due anestesisti benché questi siano protetti dal protocollo. Ma cosa è successo all’interno dell’ospedale in quelle ore?

La prima ipotesi è chiudere il Pronto soccorso e l’ospedale tenendo dentro chi c’è in quel momento. Poi viene presa in considerazione l’idea di trasferire i pazienti in altri ospedali. Medici e infermieri del turno di notte tornano a casa convinti di cominciare un autoisolamento. E invece no: vengono richiamati più tardi, quando ci sono anche gli altri colleghi del nuovo turno. Nel corso della giornata si decide chi di loro resta e chi torna a casa. Solo a mattina inoltrata il Pronto soccorso si svuota e le porte dell’ospedale, formalmente chiuso già da mezzanotte, vengono davvero rese inaccessibili: non si esce e non si entra più. Ad oggi ci sono lavoratori che aspettano ancora l’esito del tampone.

coronavirus mappa casi contagiati
Coronavirus, la mappa dei contagiati (La Stampa, 26 febbraio 2020)

In uno dei messaggi scambiati via WhatsApp, un uomo dall’interno dell’ospedale (che non vuole essere identificato) racconta a un amico che «è sbagliato dire che quella notte è andato tutto bene perché non è la verità. Ma era un’emergenza mai vista e non vale accusare con il senno del poi. Diciamoci soltanto la verità, e cioè che forse la gestione di quella notte poteva andare meglio, ma diciamo anche che non era facile e che tutti hanno lavorato senza risparmiarsi. E cerchiamo di imparare daglierrori».

Un medico in quarantena di Castiglione d’Adda, cittadina a poche chilometri da Codogno, racconta all’agenzia AdnKronos: «Siamo stati un po’ delle cavie. Bisogna dare ai medici delle protezioni, spero che nelle altre regioni non si facciano gli stessi errori». Ancora: «Nelle settimane precedenti c’erano state troppe polmoniti strane. Ma per il nuovo coronavirus tutto quello che dovevamo fare era chiedere agli assistiti se venivano dalla Cina, e in particolare dall’area a rischio». Forse c’è stata una sottovalutazione, forse non si è capito che in un mondo ormai sempre più piccolo un virus partito da una megalopoli cinese come Wuhan poteva arrivare anche dove meno ce lo si aspettava, nella quiete della Bassa Lodigiana. Però resta una domanda: perché non è stata scelta una linea più rigorosa dall’Italia imponendo i test per tutti i casi sospetti, anche quelli che non avevano legami con la Cina? Perché i paesi dell’Unione europea non hanno scelto questa linea comune prima che il contagio arrivasse? Perché fare il test ad ogni persona con la tosse non è praticabile.

Leggi anche: Ma davvero il focolaio di Coronavirus è colpa dell’ospedale di Codogno?

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