Cultura e scienze

Emil Ludwig e i “suoi” dittatori a colloquio (e a confronto)

di Amedeo Gasparini

Pubblicato il 2020-02-08

Ottant’anni fa usciva il celebre Tre ritratti di dittatori, opera di Emil Ludwig, giornalista tedesco ebreo che ebbe accesso a tre dittatori che gli ebrei li disprezzavano, fino ai noti atti finali: Adolf Hitler, Benito Mussolini e Stalin.

article-post

Ottant’anni fa usciva il celebre Tre ritratti di dittatori, opera di Emil Ludwig, giornalista tedesco ebreo che ebbe accesso a tre dittatori che gli ebrei li disprezzavano, fino ai noti atti finali: Adolf Hitler, Benito Mussolini e Stalin. Dittatori perché tutti e tre hanno oppresso le libertà individuali, anche se le tre figure erano molto diverse tra loro. Uguali, tuttavia, di fronte alla Storia per «il disprezzo per le masse, la persecuzione dell’intelletto», come spiega Ludwig. L’autore esegue un ritratto intimo degli uomini a cui in milioni guardavano senza mai poterne afferrare davvero la personalità. Tutti e tre, provenivano dal popolo che celebravano nei discorsi pubblici e che nel privato disprezzavano. Ludwig analizza con dovizia di particolari uno ad uno i tre autocrati.

Emil Ludwig e i “suoi” dittatori a colloquio (e a confronto)

«Hitler non appare né come un tedesco, né come uno statista; men che meno un esemplare della razza che adora.» Il dittatore tedesco era «un essere patologico che […] ha tradotto l’esagerazione malata di alcuni suoi impulsi». Hitler odiava chiunque si trovasse più in alto di lui (agognava allo stato di borghese); «ereditò il risentimento del padre», doganiere ubriaco e autoritario. Al giovane Hitler mancava il talento per entrare nella scuola delle Belle Arti di Vienna e così, indigente e disoccupato, il futuro Führer iniziò a prendere «i pasti negli spacci per poveri, offerti dal barone ebreo Königswärter. L’unico sforzo che fece per assicurarsi una sussistenza fu quello di dipingere cartoline o immaginette che un amico vendeva per lui». I problemi finanziari di Hitler sarebbero scomparsi qualche anno dopo grazie alla vendita forzata di milioni di copie del Mein Kampf; egli «è diventato un milionario, ed è per questo che rinuncia al suo stipendio ufficiale» di Cancelliere, annota Ludwig. La Prima Guerra Mondiale aveva dato la sveglia al pigrissimo caporale austriaco: durante la Grande Guerra Hitler si salvò miracolosamente (il gas nemico raggiunse le vie orali, ma non provocò grossi danni). Studi della psicologia delle folle di Gustave Le Bon, musica di Richard Wagner; la svastica «la importò dalla Finlandia» e i finlandesi, «che sono in parte discendenti dai mongoli, la importarono dalla Mongolia.» Nacque l’Hitler oratore e «i tedeschi, i quali amano l’ordine più della libertà, gioirono nel ritrovarsi organizzati in nuovi ranghi di superiorità e inferiorità». Dopo la morte di Paul von Hinderburg – Presidente della Repubblica di Weimar, che (da Junker) disprezzava il plebeo Hitler – l’oratore delle birrerie fuse la carica dell’ex generale con la sua di Cancelliere, conquistata nel gennaio 1933.

mussolini donald trump america great - 1

«Mussolini è senz’altro la personalità più interessante», avverte Ludwig sin dalla prefazione del libro. «Freddo e cinico». La marcia su Roma dell’ottobre 1922 la diresse dal suo studio milanese dell’Avanti! di cui era direttore. Noto per la rapidità con cui prendeva le decisioni, arrivò nella capitale, dove – dalla sera alla mattina – venne nominato Presidente del Consiglio. Da lì in poi fu un’escalation verso il potere assoluto: conquistato a suon di belle parole («Mussolini parla in un paese in cui quasi ogni uomo è un oratore nato»). Il Duce, che non venne educato al cristianesimo, nella sua vita è stato tante cose: giornalista, insegnante, muratore, «a Orbe lavorò dodici ore al giorno in una fabbrica di cioccolato; a Losanna trasportò mattoni per due piani centoventi volte al giorno e dormì sotto un ponte quando era senza lavoro. In questo periodo, disse, portava sempre con sé un medaglione con l’immagine di Karl Marx.» «La fame è un buon maestro», spiegava Mussolini – che a differenza sia di Hitler che di Stalin, almeno nei primi tempi della dittatura – non disdegnava l’avvicinarsi dei giornalisti. E a tal proposito, scrive Ludwig, «quando gli chiesi come mai proprio lui, da […] giornalista, imbavagliasse i giornalisti del suo paese, lui si arrampicò dietro il pretesto che con la libertà di stampa essi scrivevano solo quello che gli industriali potenti e le banche, che possedevano i giornali, volevano che venisse pubblicato.» Dei tre, Mussolini era il dittatore più narcisista: al di là delle pose da neo-imperatore romano sul balcone di Piazza Venezia, il Duce amava la sua immagine e l’immagine che dava di sé agli altri. Scrive Ludwig, che Mussolini lo intervistò per dodici giorni per il libro Colloqui con Mussolini: «Un suo amico intimo una volta disse quanto Mussolini avesse sofferto da giovane per non avere la possibilità di farsi scattare delle foto. Questo è probabilmente il motivo psicologico per cui oggi non può smettere di farsi fotografare.» Curiose – ed ipocrite – le dichiarazioni dell’ex socialista in materia di differenze etniche. «Il razzismo è roba da biondi» (con allusione ai tedeschi), disse Mussolini al giovane giornalista Indro Montanelli. «Nei suoi articoli, così come nelle nostre conversazioni, non c’è nulla che Mussolini critichi più bruscamente di qualsiasi forma di teoria razziale», scrive Ludwig. «Certo che non esiste una razza rimasta pura», gli spiegò Mussolini. «La forza e la bellezza di una nazione è stata spesso causa della sua mescolanza con gli altri.» E ancora, il padre del Fascismo: «Non potrò mai credere che il grado di purezza di una razza possa essere biologicamente dimostrato.» Di antisemitismo «non v’è traccia in Italia. Gli ebrei italiani sono sempre stati buoni cittadini e hanno combattuto coraggiosamente come soldati.» Come sappiamo, prese altre drammatiche direzioni. E Ludwig lo aveva avvertito – il libro è del febbraio del 1940 –: se Mussolini «si immerge nell’avventura del suo imitatore, perirà con lui.»

Moskau, Stalin und Ribbentrop im Kreml

Nato in un paesino sperduto della Georgia alla fine dell’Ottocento, Stalin «per diciassette anni fu costretto a vivere utilizzando una sfilza di nomi sempre diversi.» Con l’arrivo del Comunismo nella Russia zarista, entrò nell’estrema sinistra del PCUS, contestando i menscevichi, la minoranza riformatrice. Secondo Ludwig, Lenin «deve più al suo discepolo di quanto il suo discepolo deve a Lenin.» Sin dai primi anni della presa del potere dei bolscevichi, l’antipatia e la rivalità reciproca tra Stalin e Lev Trockij si concretizzò all’interno del partito. «Lenin offrì a Stalin solo un posto di secondo piano, vale a dire quello di Commissario del Popolo per le nazionalità, mentre Trockij, come Ministro degli Esteri, si stava ritagliando un posto al fianco di Lenin quasi come suo co-reggente.» Morto Lenin, Stalin scalzò l’avversario, che nel 1927 dovette riparare in Messico, dove morì per mano di un sicario di “Baffone”. Noto per la sua brutalità e spietatezza, Stalin era un uomo paziente, ma tutto sommato “semplice”, nonostante gli sfarzi estetici di Mosca di zarista memoria. Sono tante le differenze tra i tre dittatori. «Mussolini insegna incessantemente a se stesso; Hitler incessantemente predica agli altri. Ogni visitatore che va da Mussolini viene da lui interrogato e interpellato; quando se ne va, Mussolini ha imparato qualcosa di nuovo. Ogni visitatore che va da Hitler dichiara che il megalomane ha tenuto la conversazione tutta per sé.» Infine, Ludwig identifica tre tratti comuni dei tre dittatori: la grande capacità di odiare, la piccola capacità di amare, una fede inestinguibile in se stessi. «Stalin e Hitler hanno in comune sia la loro predominante passione per la vendetta […] e la loro mancanza di cultura. Stalin e Mussolini hanno in comune il coraggio, la pazienza, il realismo, la normalità sessuale, il disprezzo per il denaro […] Hitler e Mussolini condividono la loro vanità, la mancanza di umorismo, la superstizione, il disprezzo per la folla e l’ideale che fingono di servire.» E alla fine è proprio questo quello che fa un dittatore: finge di sposare una nobile causa. All’atto pratico, la sua opera è solo una scalata di fama e potere personale.

Leggi anche: La scena di Morgan e Bugo che abbandona il palco a Sanremo

Potrebbe interessarti anche