Opinioni

La donna che muore per la chemioterapia sbagliata

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2015-03-09

Una virgola in meno o uno zero di troppo. Sarebbe stato un dettaglio a uccidere Valeria Lembo, la donna di 34 anni, morta il 29 dicembre del 2011 per un’overdose di chemioterapici. Tre settimane prima, al posto di nove milligrammi di vinblastina, una molecola chemioterapica usata per combattere il morbo di Hodgkin, gliene furono somministrati […]

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Una virgola in meno o uno zero di troppo. Sarebbe stato un dettaglio a uccidere Valeria Lembo, la donna di 34 anni, morta il 29 dicembre del 2011 per un’overdose di chemioterapici. Tre settimane prima, al posto di nove milligrammi di vinblastina, una molecola chemioterapica usata per combattere il morbo di Hodgkin, gliene furono somministrati 90. Il 7 dicembre del 2011 per Valeria Lembo inizia un vero e proprio calvario, raccontato oggi dai genitori e dalla zia davanti al tribunale monocratico che processa quattro medici e due infermieri del reparto di Oncologia medica del Policlinico, imputati a vario titolo per per omicidio colposo e falsificazione di cartella: Sergio Palmeri, allora primario del reparto, il medico Laura Di Noto, lo specializzando Alberto Bongiovanni, lo studente universitario Gioacchino Mancuso, l’infermiera professionale Clotilde Guarnaccia e l’infermiera Elena D’Emma. «Lo hanno capito subito di avere fatto un grosso errore – ha spigato la madre della vittima, Rosa Maria D’Amico – La dottoressa Di Noto, il pomeriggio dopo la dose letale di chemio, chiamò diverse volte prima a casa e poi al cellulare di Valeria, consigliandole di andare al pronto soccorso. Così andammo al Buccheri La Ferla e il giorno dopo mia figlia venne ricoverata al Policlinico. Valeria si era subito resa conto che le avevano sbagliato la terapia». Il Corriere della Sera raccontava così la storia all’epoca:

Perché Valeria Lembo quel linfoma di Hodgkin l’ aveva preso in tempo, al primo stadio, riuscendo anche a mettere alla luce in primavera il suo bimbo, felice a 34 anni di potersi liberare dal male, come tutti le assicuravano al Policlinico di Palermo dove, invece di iniettarle 9 milligrammi di vinblastina, l’ hanno imbottita con 90 milligrammi dello stesso farmaco trasformatosi in un veleno. Una dose letale, capace di bloccare giorno dopo giorno la funzionalità di fegato, esofago, polmoni in un crescendo di atroci sofferenze culminate in una settimana di rianimazione e nella morte avvenuta il 29 dicembre.
Adesso ci sono cinque medici sotto inchiesta, a cominciare dal primario del reparto di oncologia Sergio Palmeri, il professore che aveva in cura la giovane madre, responsabile della cartella clinica, assente quando una infermiera, davanti a quel foglio con la prescrizione dei 90 milligrammi di vinblastina, sorpresa, dubbiosa, ha chiesto l’ intervento del medico di guardia, uno specializzando.
Un neo laureato evidentemente incapace di valutare un dato così importante, gli occhi smarriti sul foglietto e su quel «90», senza la virgola fra il «9» e lo «0». Deciso a non chiedere lumi e a «non disturbare» il professore, avrà pensato che se così è scritto così s’ ha da fare. Verdetto ripetuto a una seconda domanda dell’ infermiere che mai in vita sua aveva iniettato 15 fiale di quel farmaco tutte insieme nel boccione della flebo, nel cosiddetto cocktail della chemio. Come ha poi fatto su indicazione del neolaureato nei panni di un praticante con foglio rosa lasciato alla guida di un tir in autostrada.

La madre di Valeria ha continuato: «Lo disse anche all’infermiera che le rispose: ‘E’ u stissu’ (è lo stesso, ndr). Anche Palmeri sapeva. Quando mio genero e mio marito andarono a chiedere cosa era successo, il medico disse: ‘dopo trent’anni di onorata carriera… mi darei pugni in testa, tutto questo per una dose in più…». Qualche giorno dopo le braccia di Valeria erano rosso intenso. «Sembrava avesse dei guanti – ha proseguito la madre -, aveva le croste in viso. Andava continuamente in bagno. E poi cominciò a vaneggiare. La cosa che mi fa più schifo e che il dottore Palmeri non ha avuto l’etica professionale, né il coraggio di pare e di uomo di dirci come stavano le cose». Il 16 dicembre Valeria Lembo venne trasferita all’ospedale Cervello, dove si resero subito conto della gravità della situazione. “Il dottore Bongiovanni – ha spiegato – chiamava ogni notte, per informarsi della sua condizione”. Il figlio di Valeria, che aveva sette mesi quando la madre è morta, chiede sempre di lei. “Mi dice: nonna, prendiamo un razzo e andiamo a trovare la mamma. Mi manca”, ha raccontato Rosa Maria D’Amico. Il processo è stato rinviato al 23 marzo per l’esame degli imputati.
Immagine da Livesicilia

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