Tria e le regole europee

di Fabio Scacciavillani

Pubblicato il 2018-11-09

Per accertare il grado di incompetenza e dissociazione dalla realtà che pervade il governo somarista basta una veloce ricerca sulle esternazioni del più figo bolscefico nel bigoncio del gabinetto Conte. A Bruno Vespa (stando alle anticipazione del suo libro natalizio) che gli chiedeva se avrebbe mai firmato il trattato di Maastricht, il ministro Tria, il maoista …

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Per accertare il grado di incompetenza e dissociazione dalla realtà che pervade il governo somarista basta una veloce ricerca sulle esternazioni del più figo bolscefico nel bigoncio del gabinetto Conte. A Bruno Vespa (stando alle anticipazione del suo libro natalizio) che gli chiedeva se avrebbe mai firmato il trattato di Maastricht, il ministro Tria, il maoista prestatosi a fare la marionetta legaiola, risponde: “Non avrei firmato altre cose arrivate dopo [ … ] Come il ‘fiscal compact’, che la Gran Bretagna non firmò”. Viene il sospetto che la particolare forma di crassa ignoranza diffusa in agro di Pomigliano sia contagiosa e retroattiva. Perché la “Gran Bretagna”, o più precisamente il Regno Unito, non aveva alcun bisogno di firmare il fiscal compact non essendo un paese dell’area euro. Quindi nessuno intendeva sottoporlo ad un vincolo di bilancio necessario per la partecipazione ad un’unione monetaria. Ma questa baggianata del maoista legaiolo era solo l’antipasto che secondo Vespa ha proseguito ineffabile: “Non avrei firmato e messo in Costituzione il pareggio di bilancio. Non sono contrario al principio in sé, ma una norma del genere non ha senso se alla politica monetaria sovranazionale non si affianca una politica fiscale unitaria”.

matteo salvini giovanni tria

Qui si palesa un melmoso concentrato di ignoranza economica e isituzionale. Anche tra le tribù amazzoniche è noto che la politica fiscale “unitaria” è un pilastro del Trattato di Maastricht: si espleta infatti attraverso i limiti al deficit e al debito pubblico. I parametri valevano allo stesso modo per tutti i membri dell’unione monetaria, ergo rappresentavano i cardini di una politica fiscale unitaria. E a Tria andrebbe altresì spiegato che i limiti furono stabiliti proprio per evitare che i governi usassero l’euro per comprare i voti delle loro clientele a spese degli altri paesi europei. In sintesi i parametri di Maastricht furono stabiliti peroprio per impedire il raggiungimento dell’obiettivo principale del governo sfascio-legaiolo. Quanto al pareggio di bilancio in Costituzione è una diretta conseguenza degli impegni solenni e inderogabili iscritti nel Trattato di Maastricht, sottoscritti a nome dell’Italia, anche da un governo di cui faceva parte il suo dante causa, tal Paolo Savona. Infatti il Trattato impone non un limite del 3% al rapporto deficit/Pil. Quello era il massimo consentito per entrare nell’euro. I paesi membri dell’Unione Monetaria avevano giurato che successivamente al lancio dell’euro avrebbero raggiunto il pareggio di bilancio. Il limite del 3% in sostanza fissava la deviazione massima consentita per far fronte a circostanze avverse imprevedibili, non un obiettivo ex ante della legge di bilancio nazionale. Quindi anche se il pareggio di bilancio non fosse stato inserito in Costituzione per il governo italiano rimanere nell’euro implica il dovere esplicito di pareggiare entrate e uscite.

luigi di maio giovanni tria

Ma se a Tria la memoria facesse difetto non avrebbe che da chiedere al Tal Giancarlo Giorgetti che all’epoca del governo Monti era presidente della Commissione Bilancio della Camera e oggi oggi è suo collega di governo. Il suddetto esponente legaiolo fu uno strenuo paladino del pareggio in bilancio in Costituzione proprio perché servisse a rendere cogenti gli impegni del fiscal compact.
Infine, come ciliegina sulla torta Vespa ci delizia con un’altra perla della triste maschera maoista: “Il fallimento dell’Europa sta qui: la politica fiscale è espressione della sovranità politica. O abbiamo una politica fiscale europea affidata a un’autorità politica (e per questo discrezionale) o le cose non funzionano. Io sono disposto a far scendere da un treno in corsa un conducente nazionale per farvi salire uno sovranazionale, ma non farei scendere il conducente nazionale per affidare il treno a un pilota automatico. Questo è il grande nodo irrisolto”. Emerge prepotente una subcultura sinistroide impastata di ignoranza somarista (ma diffusa ampiamente anche in altre inculture politiche). La politica dovrebbe occuparsi delle funzioni essenziali per cui lo stato moderno è stato creato: politica estera, politica di difesa, giustizia penale e civile, politica monetaria, sanità pubblica e poco altro. Il resto va demandato al settore privato che fornisce servizi in modo più efficiente. L’idea che la Politica non debba essere assoggetata a delle regole, ma sia per sua stessa natura, discrezionale è una deriva malata del socialismo che non potendo distruggere lo stato moderno ne ha scardinato l’impianto illuministico e la separazione dei poteri. La politica, con la p minuscola, deve limitarsi ad amministrare, entro in un quadro di regole fisse, non essere la prateria in cui scorrazza l’arbitrio di chi prevale momentaneamente nelle elezioni, magari con i brogli o con le promesse di distribuire soldi ai propri fedeli. Per restaurare lo stato di diritto è imperativo non solo un bilancio in pareggio ma anche un limite costituzionale alla pretesa fiscale dello stato. La questione non è chi sale sul treno: la questione è buttare dal treno tutti coloro che vogliono dirigerlo fuori dai binari della disciplina fiscale e del rispetto delle regole appellandosi alle superiori esigenze della Politica. Che, tradotto in termini semplici, sarebbero le esigenze dei porci comodi di chi ha agguantato il potere e vuole incollarsi la cadrega alle chiappe.

 

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