The Italian Lockdown – Cronache da un Paese in Quarantena: 11. Once you go black, you never go back!

di Lorenzo Favella

Pubblicato il 2020-03-22

Angela chiede come vanno le cose a Roma, ma Luciano ha la testa altrove, impegnato in una ricerca che si fa via via meno rassicurante, fino a quando decide che è meglio non rimestare nelle pastoie del passato, memore di un antico adagio che gli era stato raccontato da una puttana di Nairobi. Domenica, 22 …

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Angela chiede come vanno le cose a Roma, ma Luciano ha la testa altrove, impegnato in una ricerca che si fa via via meno rassicurante, fino a quando decide che è meglio non rimestare nelle pastoie del passato, memore di un antico adagio che gli era stato raccontato da una puttana di Nairobi.

Domenica, 22 marzo 2020.

“Mi vuoi dire come vanno le cose a Roma? Cosa sta succedendo lì?”
“Roma non esiste più.”
“Che vuoi dire?”
“E’ diventata la Svizzera.”

Proprio così. Nel giro di un giorno o due, dall’inizio del Lockdown, la città si era svuotata. Per strada, trovavi solo file di persone, a tre metri di distanza l’uno dall’altro, davanti ai negozi di alimentari o alle farmacie. Al Tuodì avevano pure messo un detergente per lavarsi le mani prima di entrare.
Non tutti indossavano le mascherine, era impossibile trovarne una, ma anche così, guardando le poche facce spente che circolavano, la città non era più la stessa.

coronavirus roma deserta 1

“Non sei andato a farti qualche passeggiata? Deve essere incredibile vedere Roma così vuota.”
“No. Mi attengo alle regole. E poi, se ti fermano, c’è il rischio di prendersi una multa. Ti ho detto, è come la Svizzera ormai. Questo weekend, dice che fermeranno anche le macchine verso il litorale, che qui ha preso a far caldo e pare che la gente avesse cominciato ad andare in spiaggia a prendere il sole.”
“E tutti quelli che stavano sempre a ciondolare, per il Pigneto?”
“I senegalesi tutti spariti. Gli skaters pure. Da quando hanno smesso di aprire anche il mercato, non c’è più anima viva. Locali tutti chiusi, ovviamente.”
“Cazzo… Allora è proprio come qui.”
“Tale e quale.”

La scomparsa dei senegalesi aveva creato qualche scombussolamento per chi era solito rifornirsi da loro. Il giorno prima, oltre la finestra della mia camera da letto, un grido aveva squarciato l’aria, echeggiando nell’ampio spazio incolto, circondato dai palazzi che davano sulla Prenestina.
“Voglio dell’erba! Vi prego! Datemi dell’erbaaa!!!” sbraitava un disperato, senza che si capisse in quale appartamento fosse rintanato.
In rete, era circolato un video di un uomo che camminava nudo, in pieno centro, sul ponte di corso Vittorio.
Seppur nascosto nella quiete apparente, il disagio avanzava a passi felpati.

“E tu, come hai risolto?”
“In che senso?”
“Con le canne.”
“Ho smesso. Non me le faccio più.”
Caspita, questa sì che era una notizia. Mia sorella aveva dato un taglio alle sue cattive abitudini.
“Perché non trovi più il fumo” ho ironizzato.
“Noo, volendo in qualche modo si rimedia anche qua. Ho proprio smesso. Voglio cambiare alcune cose della mia vita. E questo credo sia il momento giusto per farlo.”
Il tono della voce lasciava trapelare una determinazione che non avevo problemi a riconoscere. Quando Angela si metteva in testa una cosa, non c’era verso di fermarla e il più delle volte la otteneva. Mi chiedevo soltanto cosa ci fosse dietro quell’improvviso mutamento.
Ha tergiversato, senza voler entrare in troppe spiegazioni, ma intuivo che qualcosa doveva esserle successo e andava al di là di una semplice distorsione alla caviglia.
“Vuoi che ti passo mamma?”
“No! Per carità! Ci ho già parlato stamattina, finisce che mi tiene al telefono un’altra ora.”
“Vabbè, stammi bene fratellino.”
“Guarda che sei nata solo dieci minuti prima di me.”
“Mamma dice mezz’ora, almeno. L’hai fatta penare, poverina!”
“Vedo che ogni volta la tempistica aumenta. Ha ripreso a raccontare di nuovo la storia del parto?”
“Almeno due volte al giorno.”
“Buona fortuna, allora.”

Ho acceso il computer e sono andato su Facebook. Da Helga, nessuna nuova. Avevo subito accettato la sua richiesta di amicizia, tre giorni prima. Le avevo anche scritto qualche riga in privato, ma il messaggio risultava ancora non visualizzato.
A giudicare dalla sua bacheca, non era molto attiva sul social. Sembrava uno di quei profili aperti e poi scarsamente utilizzati. Chissà, forse mi aveva pensato, che l’Italia era in testa a tutti i notiziari del mondo e avevamo superato la Cina per numero di morti, poi se n’era dimenticata. Magari anche lei aveva il suo da fare per organizzarsi come si deve. Pure in Baviera, avevo letto, era iniziato il Lockdown. Stessa cosa nel Regno Unito, in tutto lo stato di New York e in California.
Ho pensato a Spiderman, che se l’era svignata giusto in tempo ed ora se la godeva in quel di Cuba.

Per ingannare il tempo, in quella domenica dove non si sentiva volare una foglia, nemmeno una macchina in giro, ho preso a visionare nuovamente la pagina di Helga. C’era qualcosa che mi era rimasto in testa, ma non avrei saputo dire esattamente cosa. Dovevo mettere insieme quelle poche informazioni disponibili, per capire meglio.
Anzitutto, si era iscritta su Facebook già da alcuni anni, con un cognome diverso. Non era più Helga Weiss, ma Helga Schwarzmann. Per questo non ero mai riuscito a rintracciarla.
Probabilmente si è sposata, era la prima cosa che veniva in mente.

Sulle sue informazioni personali, questo non veniva specificato. Non c’era scritto niente, nemmeno che lavoro facesse.
Nella sezione delle foto, non c’era traccia di un possibile marito. Qualche gattino, qualche mazzo di fiori, qualche torta… Solo dopo averne cliccate diverse, ne ho trovato una che doveva essere lei. Presa di profilo, in chiaroscuro, lo sguardo proiettato oltre una finestra che dava su una spiaggia caraibica, davanti a un mare carico di azzurro, mi risultava difficile riconoscerla. Avrebbe potuto essere chiunque in realtà.

L’unica altra foto personale, per così dire, la ritraeva con quelle che ho pensato potessero essere le sue bambine. Erano due, dovevano avere sui tre, quattro anni.
Sulla neve, si stringevano alle gambe di quella che doveva essere la mamma, cioè Helga, con gli sci ai piedi, le racchette in mano, il casco e gli occhialoni scuri. Anche in questo caso, mi risultava difficile dire se fosse proprio lei, ma ricordo che le piaceva andare a sciare. Una volta, quando ancora abitavo su, eravamo andati assieme in una baita in val Gardena, per qualche giorno.

Sono tornato sulle informazioni e ho controllato la data di nascita. Non ricordavo esattamente il giorno del suo compleanno, ma aveva più o meno la mia stessa età e questo coincideva. E comunque dai, doveva per forza essere lei, non conoscevo nessuna altra Helga, al mondo.

Le bambine si vedevano in altre foto. Sull’altalena, in un piccolo parco giochi… Del padre o del marito, invece, proprio niente.
Aveva divorziato? Forse. Ma a quel punto perché tenere il cognome dell’ex? Chissà, magari era rimasta vedova. Aveva mantenuto il cognome che il marito aveva dato alle figlie, senza caricare foto su Facebook, per rispetto. Avrei fatto anch’io così, se mi fosse successa una disgrazia del genere, che non mi pare bello lasciare su un social le foto di una persona deceduta.

Mumble mumble.

coronavirus roma deserta 2

Oppure… questa era un’ipotesi più azzardata, me ne rendo conto, poteva anche avere cambiato volutamente il proprio cognome, abbandonando quello del padre a favore di quello della madre.
Ricordo che non andava molto d’accordo con la sua famiglia. Non ne parlava molto volentieri, in realtà, io non li avevo mai conosciuti, ma credo che il padre fosse un tipo manesco che beveva un po’ troppo e talvolta prendeva a botte sua madre. Che subiva in silenzio. Storiacce.
Helga se n’era andata di casa non appena aveva compiuto i diciotto anni e non ne aveva più voluto saperne, anche se con la madre aveva mantenuto i rapporti. Le voleva bene, nonostante non riuscisse a convincerla a sottrarsi a quel matrimonio andato a male.
Magari, nel frattempo, suo padre era morto di cirrosi epatica e per cancellare ogni traccia di lui, ecco che aveva deciso di liberarsi di quel cognome che aveva pesato come una condanna, inquinando gli anni della sua giovinezza.

Mi è venuto di pensare a questa strana possibilità, perché in passato c’era stata una mia amica che aveva cambiato il suo cognome, per tutt’altre ragioni. Era di origini meridionali, veniva a scuola con me e si chiamava Porcella.
Non ridete, che in realtà ce ne sono più di quanto uno creda, al sud. O almeno così diceva lei, che però davvero non sopportava quel cognome, anche perché i genitori avevano avuto la geniale pensata di chiamarla Isabella, solo che tutti la chiamavano Bella. E insomma Bella Porcella non era esattamente il massimo.
Di cambiare il nome proprio no, perché Bella le piaceva, visto che era assai vanitosa. E così, a furia di dai e dai, era riuscita a convincere tutta la sua famiglia a diventare Portella. Bella Portella.
Poi, si era sposata con un barese che si chiamava Troia, che in quanto avvocato della Troia Associati non aveva alcuna intenzione di cambiare il proprio cognome, ed ecco che il problema si è presentato di nuovo. Da Bella Porcella a Bella Troia.
Però, con la fede al dito e un buon partito che garantiva una discreta sicurezza economica, ecco che il problema era diventato tutto sommato marginale.

Sto divagando inutilmente, lo so. Torniamo al punto. Quelle due bambine delle foto, Helga doveva pur averle fatte con qualcuno, la questione del cognome era tutto sommato secondaria. Forse aveva messo su una piacevole famiglia o forse era rimasta da sola con le pargole.
Questo avrei voluto capire.

Sono così passato a guardare i suoi post. Pochi per la verità. Qualche canzone, soul music soprattutto, qualche notizia presa dalla Bild (scelta discutibile, era il tabloid peggiore di Germania) e tante foto di giocatori di basket della NBA. Inesorabilmente belli. E neri. E lì mi è scattata una pulce nell’orecchio.
Riguardando le foto delle bambine, in effetti, si notava una certa carnagione olivastra, non esattamente ariana. Anche i capelli erano un po’ crespi, seppur ordinati in trecce, il più delle volte.
C’era poi un post che reclamizzava la Jamaica, immortalato dallo slogan, Rent-a-Rasta, che aveva avuto diversi like e commenti entusiastici, da parte di alcune sue amiche tedesche, tutte donne.
Ho controllato la data e risaliva a cinque anni prima. Prima della nascita delle bambine, ad occhio e croce.

Il quadro si andava definendo in modo diverso da quanto avrei desiderato immaginare e d’un tratto mi è tornato alla mente quella volta che eravamo andati a vedere assieme un concerto di Lenny Kravitz, a Monaco di Baviera.
Helga aveva sgomitato come una pazza, pur di arrivare sotto il palco, per poi seguire il concerto assorta, sognante ed estatica, con i pugnetti stretti sulle guance. Obiettivamente, Lenny era bravo. Un vero Dio sul palco, ma avevo avuto la sensazione che non fosse solamente interessata alle canzoni, davanti a quel colosso.

Quella sera, eravamo tornati a casa, stanchi e un po’ bevuti ed eravamo crollati a letto senza fare all’amore. Durante la notte, però, l’avevo sentita ansimare, leggera, e avevo notato un movimento sotto le lenzuola, che non mi riguardava.
Non dico sia stato quello l’inizio della fine del nostro rapporto, c’erano altre questioni in ballo di cui ho già parlato, vivevamo in città diverse, in Paesi diversi, ecc, ma insomma… Dovendo stabilire una data in cui la distanza tra noi ha cominciato a segnare un solco profondo, beh, forse è successo tutto quella sera. Anche se poi, la mattina dopo, avevamo fatto all’amore in modo particolarmente sfrenato, soprattutto da parte sua, e per colazione mi aveva preparato delle omelette perché non ne aveva ancora abbastanza e il mio volo sarebbe partito solo nel tardo pomeriggio.

Arrivai a Roma sfinito, come sfinito mi sento ora nel comprendere che a inseguire antichi amori non si cava un ragno dal buco, ma intanto è come se uscissero fuori vermi e lombrichi e mostri neri. Che in pieno Lockdown non fanno per niente bene alla sanità mentale.

Fulmineo, mi è salito al cervello un altro ricordo. Ero a Nairobi, in Kenia, a scrivere la sceneggiatura di un film per una regista del posto. Non chiedetemi come e perché, è una lunga storia che magari racconterò un’altra volta.
Fatto sta che una sera ero andato a mangiare un boccone in un locale dalle parti di Westlands dove si poteva anche ballare ed era popolato da una fauna parecchio selvatica.
Una ragazza davvero bellissima mi aveva puntato e non mi si scrollava più di dosso. Mirava al mio portafoglio, in verità, la sua professione era facilmente intuibile, ma cascava male. Anche volendo, con la miseria che guadagnavo, potevo giusto offrirle un drink.
“Are you sure?” aveva sospirato, carezzandomi il braccio.
“Yes. I’m sure” le avevo risposto, invitandola gentilmente a tenere le mani a posto.
Era esplosa in un risata, illuminata da quei denti bianchi bianchi, che parevano luccicare sulla sua carnagione scura scura, come l’ebano.
“Remember. Once you go black, you never go back!” aveva sentenziato.

Ho pensato a Helga, al cognome che da Weiss (bianco) era passato a Schwarzmann (uomo nero), ho capito che doveva essere un semplice nick che si era data su Facebook, tanto per definirsi in un certo modo… Alle bambine meticce, alla Giamaica, ai Rent-a-Rasta che avevo visto in azione di persona, durante una vacanza su quell’isola, sempre sotto braccio a qualche turista nordica o americana, e…

Travolto da una sensazione di improvviso malessere, ho spento il computer.

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