Opinioni
Suffragio Universale? È ora di smetterla!
di Giuseppe Giusva Ricci
Pubblicato il 2017-08-29
Negli ultimi anni (diciamo pure dalla comparsa delle propagande delle Lega salviniana, del M5s, dei ‘movimenti’ d’ultra-destra, di partituncoli vetero-comunisti, e — per alcuni aspetti — del Renzismo) una questione che la politica ha sollevato, innescando dubbi e mortificazione negli animi sensibili alle istanze del funzionamento democratico delle istituzioni e dunque della società, è quella […]
Negli ultimi anni (diciamo pure dalla comparsa delle propagande delle Lega salviniana, del M5s, dei ‘movimenti’ d’ultra-destra, di partituncoli vetero-comunisti, e — per alcuni aspetti — del Renzismo) una questione che la politica ha sollevato, innescando dubbi e mortificazione negli animi sensibili alle istanze del funzionamento democratico delle istituzioni e dunque della società, è quella che induce a riconsiderare e a chiedersi se il Suffragio Universale sia ‘pratica’ ancora valida al fine di mantenere l’equilibrio democratico ma anche un ‘giusto’ diritto alla partecipazione libera e popolare alle cose dello Stato e, dunque, della Società.
Certo è che con cinquant’anni tra DC e Berlusconismo questo dubbio avrebbe potuto sorgere anche prima, ma una volta, a parte l’assenza dei social, i protagonisti della politica non facevano appello in modo becero agli istinti più bassi e all’ignoranza diffusa, anzi, la dimostrazione di un certo livello culturale era cavallo di battaglia. “Protagora esaltò il valore paritario dell’interpretazione della realtà da parte del singolo, ponendo (almeno filosoficamente) tutti gli individui allo stesso livello, facendo sorgere l’idea che tutti sono capaci di partecipare alla vita politica “a patto che questa loro disposizione sia adeguatamente sviluppata mediante l’educazione”; nello stesso periodo di vivacità filosofica, scaturì il pensiero di una Tecnica superiore capace di gestire le abilità materiali e di indirizzarle verso il bene comune, la Politica. Tra III e IV secolo a.C., saranno Aristotele, Socrate, Platone e Callicle a filosofare sui concetti di Politica, e sulla forma ideale di uno Stato. Per Socrate la Politica era intesa come un’attività finalizzata all’educazione dei cittadini per renderli migliori. Aristotele, nel suo Politica, definisce lo stato come una comunità di persone uguali, il cui fine è migliorare la vita, e individua varie condizioni necessarie per la sua realizzazione, tra le quali una classe di cittadini cui spetta di governare e un’altra di non-cittadini (mercanti, meccanici, contadini) destinata a lavorare, per lasciare alla classe superiore la possibilità dell’ozio utile alla pratica della virtù e all’attività politica. Anche per Platone, nel suo Repubblica, lo stato ideale è diviso in classi (dotate di diverse tipologie di anima), e solo a una di queste è destinata un’educazione speciale a cura dello stesso stato, in vista del fatto che sarà la stessa classe a ri-governarlo.
Platone — includendo anche il controllo delle Arti — prevedeva anche forme non-ideali di stato caratterizzate da progressiva degenerazione, quali l’oligarchia, la tirannide e la democrazia stessa, teorizzando così la corrispondenza tra le forme degenerate di stato e una tipologia d’uomo intellettualmente e moralmente inferiore. Per Aristotele e Platone la democrazia e la tirannide rappresentavano le forme peggiori di governo, mentre fissavano nella Politìa la forma più vicina all’ideale. Ritenevano che le forme peggiori (tirannide, oligarchia, democrazia) si sarebbero sviluppate nei casi in cui i governanti avessero governato nel loro interesse e non in quello della comunità; solo la Politìa avrebbe potuto soddisfare l’ideale della felicità comune; facendo prevalere gli interessi medi, e non quelli dell’eccessiva ricchezza o dell’eccessiva povertà, entrambi capaci di originare e diffondere sentimenti maligni.”*
Oggi, osservando i contenuti che appaiono sui social ad ogni evento politico-sociale, o ancora peggio in maniera permanente in relazione alla campagna elettorale altrettanto permanente, sembra confermata la veridicità dell’enunciato di François-Marie Arouet detto Voltaire: “Quando la plebaglia vuol mettersi a ragionare, tutto è perduto”.**
Se si concorda sul fatto che nella modernità mediata dai monitor esiste un disegno de-formativo riutilizzabile politicamente, non si può non essere stufi del dilagare di una nuova forma d’ignoranza che in modo reazionario tende a erigersi a conoscenza; in parole povere, non se ne può più di esternazioni tipo “governi non eletti dal popolo” e cioè non si può permettere che, come ha scritto Michele Bruson, “[a]d aprirvi gli occhi [siano] persone senza titoli di studio o competenze specifiche che guadagnano con la vostra capacità di credere a qualsiasi cosa”.
Cos’è che qualifica un individuo e lo classifica tra coloro che hanno diritto alla scelta/partecipazione politica volta a designare chi poi dovrà gestire la cosa pubblica, la società e la vita del paese? In questa società che si esprime per funzioni e (talvolta) per meriti in ogni sua dinamica e ramificazione, perché un semi-analfabeta o un individuo che ignora anche solo la Storia degli ultimi cinquant’anni dovrebbe aver lo stesso diritto/potere di chi invece si è in-formato?
Henri-Frédéric Amiel spiega alla perfezione i pericoli intrinseci dell’uguaglianza a tutti i costi e della democrazia coatta: “[…]la democrazia arriverà all’assurdo rimettendo la decisione intorno alle cose più grandi ai più incapaci. Sarà la punizione del suo principio astratto dell’Uguaglianza, che dispensa l’ignorante dall’istruirsi, l’imbecille dal giudicarsi, il bambino dall’essere uomo e il delinquente dal correggersi. Il diritto pubblico fondato sull’uguaglianza andrà in pezzi a causa delle sue conseguenze. Perché non riconosce la disuguaglianza di valore, di merito, di esperienza, cioè la fatica individuale: culminerà nel trionfo della feccia e dell’appiattimento”. ***
Allora questa è l’epoca in cui muore il suffragio universale?
Le regole della democrazia formale, basata sul Suffragio Universale, hanno fallito?
Dal mio punto di vista, sì!
La democrazia ha fallito, proprio come intuì Platone presagendo la degenerazione progressiva (oligarchia, tirannide) degli uomini intellettualmente e moralmente dimezzati. Perché non c’è stato modo; la tecnica, l’opulenza e i mezzi di comunicazione di massa (stampa, radio, cinema, TV, web) hanno orientato la tendenza gestendo il libero pensiero; e anche l’avanzamento tecnologico delle sempre più sofisticate e alte definizioni può essere considerato come elemento di distrazione dai contenuti il cui livello è comunque sempre più basso.
Se è vero che la nostra libertà di pensiero è prodotta dalle nostre coscienze e dalle nostre menti, la convinzione di essere veramente liberi di pensare pensieri propri è ormai indice di superbia. La Libertà di Pensiero va conquistata! La comunicazione — che non è necessariamente cultura — a tutti i livelli, è troppo condizionata e dunque condizionante. La nostra mente è un derivato di altre menti potenti nei mezzi, e la nostra supposta libertà di pensiero è roba da minorati, un modo di dire vuoto e banale. Per una libertà di pensiero autentica occorrerebbe dedicarsi alla ricerca e alla formazione quasi permanenti (che il sistema dovrebbe fornire); nell’iper-complessità che ci circonda sono necessarie elaborazioni sui propri stessi pensieri per comprendere quanto questi siano indotti o, invece, prodotti da sintesi tra criteri e conoscenze non superficiali, ossia conquistati con l’impegno e l’interesse e il sacrificio intellettuale, tutti elementi invisi alla massa — che però, per Dio, ha il diritto di votare.
Ce lo aveva già detto Kant: “L’illuminismo è l’uscita dell’uomo da una condizione di minorità di cui egli stesso è responsabile. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di altri”, ma anche, più di recente, Galimberti: “[L]’Illuminismo […] è un atteggiamento, una condotta, una pratica di vita, un esercizio del pensiero da cui non è possibile esonerarsi […] Quindi un compito etico da trasmettere da una generazione all’altra, un compito infinito che si ripropone”.
Perciò è troppo semplice, ormai, pensare di poter scegliere, di avere le capacità di scegliere, solo perché si è convinti di pensare con la propria testa. Ai tempi di Internet quest’asserzione non significa nulla! Il problema è che troppo spesso la testa e la coscienza obbediscono a sottoculture mediatiche, o peggio ancora ai dettami diffusi tramite materiale falso e mistificatorio, prodotto proprio per ottenere il consenso dopo aver solleticato la vanità dell’autodeterminazione e della libertà ultrasoggettiva e/o apparentemente anti-sistemica. Occorre invece che la conoscenza e la capacità critica si fondano nella personalità dell’individuo, diventino parte della sua indole e non rimangano freddi accessori che possono essere scavalcati da istinti egoistici o cavalcati da Nemici e impostori spregiudicati. Occorrono coscienze che non si facciano accecare dalla rabbia per gli accadimenti sociali, così che possano sempre agire politicamente in modo ponderato, senza lasciare spazio alle sub-ideologie né libertà d’azione a strani figuri capaci di fomentare le masse proponendo soluzioni semplicistiche o populistiche dei sempre più gravi problemi socio-economici.*
Tocqueville sosteneva che “la maggioranza è come una giuria incaricata di rappresentare tutta la società e applicare la giustizia che è la società”; la questione della legittimità del Suffragio Universale torna dunque violentemente come un dissidio interiore alle nostre coscienze che proprio per difendere il bene comune temono il ‘bug’ intrinseco.
Certo la questione che s’introduce — del Suffragio Universale limitato o di una democrazia ponderata relativamente al diritto al voto — potrebbe essere intesa come uno smottamento della democrazia e come un limite alle masse non abbienti e impossibilitate a formarsi culturalmente, ma non è così. Da che mondo è mondo i ceti privilegiati hanno sempre e comunque avuto la possibilità di istruirsi e formarsi, ma per i ceti subalterni o medi l’accesso alla conoscenza con l’obbligo scolastico è una conquista relativamente recente, conquista che ha cominciato ad essere minata alla base da un depauperamento progressivo e sistematico della scuola pubblica quando è stato chiaro che la Cultura apre davvero le menti. Il ceto medio-basso e basso che aspira a un miglioramento sociale, culturale ed economico deve convincere i propri figli a studiare seriamente e a non lasciarsi ammaliare dal sapere mordi-e-fuggi che viene spacciato per cultura, investendo tempo e sostanze difficili da racimolare nella formazione. Per chi appartiene alle classi veramente emarginate e povere per cui l’istruzione, non solo quella superiore, ma anche quella ordinaria, di base, è un di più, la conquista della Cultura dipende ancora e sempre dall’impegno e dalla volontà di istruirsi da autodidatti e senza la guida delle agenzie formative istituzionali; questa conquista e il sacrificio che comporta andrebbero ricompensati.
In questo senso pare iniquo che abbiano diritto al voto, e dunque alla decisione, anche coloro che da sempre vivono dignitosamente del loro mestiere ma anche nella quasi totale ignoranza, che è ignoranza per scelta, scelta di spendere il tempo libero con l’Intrattenimento anziché con la Cultura, che invece potrebbe regalare una coscienza pronta a percepire e a elaborare.
Allo stesso modo pare ancora iniquo che altri, privilegiati in partenza, pur potendo studiare, abbiano rinunciato a formarsi o si siano accontentati di conoscenze mediocri e irrilevanti e di sistema, inutili alla formazione di una coscienza utile, ma utili per produrre quel brusio di lamentele a posteriori — e scorrette.
La ricompensa onorevole per l’individuo volenteroso, e cioè il diritto al voto, alla decisione, all’opinione utile, dovrebbe spettare solo a chi ha lavorato alla propria consapevolezza o almeno per ottenere anche conoscenze minime di cultura generale.
Come ho già scritto altrove, “l’elemento discriminante non dovrebbe poi essere la capacità soggettiva di ‘comprendere’ lo stato delle cose, ma la mancanza di conoscenze minime, anche banali, che sono le credenziali utili a qualsiasi discernimento. Con il declassamento della Cultura a favore della Comunicazione e dello Spettacolo, la sovranità non può più appartenere indiscriminatamente al popolo iperdistratto e fuorviato, e ciò non ha nulla a che fare con la democrazia che è sinonimo di uguaglianza giuridica e di tensione dello Stato verso il Bene Comune. È necessario un nuovo formato di partecipazione alla cosa pubblica, un nuovo paradigma che conceda certamente a chiunque la possibilità di partecipare, ma questo deve sottendere una minima preparazione, a sua volta innescata da un minimo interessamento precedente”.*
Insomma, forse basterebbe una patente, molto semplice da acquisire, con un esame sui fondamentali; ma in tanti dovrebbero almeno mostrare interesse oltre a dirsi presenti.
*Giuseppe Giusva Ricci, Nemici Politici, 2017
** Voltaire, Correspondence, 1766
***Henri-Frédéric Amiel, Frammenti di diario intimo, 12 giugno 1871