The Italian Lockdown – Cronache da un Paese in Quarantena: 13. Happy Days

di Lorenzo Favella

Pubblicato il 2020-03-25

Anche a New Orleans non si suona più. From Uptown to Frenchmen street. Tutto chiuso anche lì. Ma il ricordo di certe partite non si cancella. E nemmeno le Dixie Beer flottanti lungo il Buffalo River. E poi una foto che arriva in via telepatica. Martedì, 24 marzo 2020. Arrivano notizie anche da New Orleans. …

article-post

Anche a New Orleans non si suona più. From Uptown to Frenchmen street. Tutto chiuso anche lì. Ma il ricordo di certe partite non si cancella. E nemmeno le Dixie Beer flottanti lungo il Buffalo River. E poi una foto che arriva in via telepatica.

Martedì, 24 marzo 2020.

Arrivano notizie anche da New Orleans. Dalla mia famiglia afro-americana, dove ho vissuto per un anno, tanto tempo fa, come exchange-student, imparando che non tutti i neri sanno ballare, ma di solito sono più capaci di noi, e poi tante altre cose. Ma anche loro hanno imparato qualcosa da me. Tipo che i bianchi, se stanno troppo sotto al sole, senza protezione, si bruciano la pelle. E la mia sorellina si era divertita assai, a spellarmi vivo, sotto gli occhi increduli di tutti.
Con mamma che diceva: “Lascialo stare, gli fai male!”
“No. Non fa male. E’ solo pelle morta” spiegavo io.
E così Zonell, che all’epoca aveva tredici anni, si divertiva un mondo, con quel giocattolo che si era ritrovato in casa, che poi ero io: the white boy.

Zonell:
Hello big brother, I’m reaching out to check on you and your love ones. I’m praying for all of us in the world. This is truly heart breaking. Hope this message finds you well. Damn Boy.

Io:
Damn girl, love to hear from you. I’m in Rome, locked down. I only get out to the grocery store and that’s about it. My mum and my sister are up north, and they’re doing ok too. Up there, though, they’re a bit more scared, cuz the virus is hitting harder. But I guess we’re all fine, if fine is the right word. Take care y’all!

Zonell:
Great to hear that. I’m working from home until further notice. My son is also home. My daughter is staying in her apartment about an hour from New Orleans. Her law classes will start on line this week. My husband is still working for now. Once the governor shut the state down, he said he will keep going as long as he can. The Governor of Angeles has shut down the city too. That means Butch is on lockdown. Glenn and Allen are staying put for the most part. Jerome and his wife are staying in as well. They said they went out just driving around.

Io:
In Italy, right now, we’re not even allowed to drive around, unless you have a real necessity. Wish I could go to the beach, cuz the weather in Rome’s being warm, these past couple of days. It’s not time to swim yet, but I’d like to get a tan. Remember, when I got sunburnt after that canoe trip and you were having fun. peeling off my skin, in wonder? Haha.

Zonell:
Lol at me peeling you skin. I so remember that. The road ahead is going to be a tough one. However, this too will pass. Take care and be safe, should you go out. Love ya!

Io:
love you too sis

Quella gita in canoa mi è tornata alla mente come se fosse ieri. Garcia, l’allenatore della nostra squadra di calcio, nonché professore di Astronomia nella high school che frequentavo, Redeemer High, aveva deciso di dare un premio a tutti noi.
A differenza delle altre squadre della scuola, basket, baseball ecc, avevamo disputato una stagione fantastica, tanto che molti dei nostri compagni avevano cominciato ad assistere alle nostre partite, nonostante giocassimo a soccer, cui non fregava niente a nessuno da quelle parti e a malapena conoscevano le regole.
Ci fu una partita, in particolare, che diventò memorabile. Contro la Newman, la scuola dei ricchi wasp. Battere la Newman era un must per tutti, se andavi alla Redeemer High, che pur essendo una scuola privata era molto, ma molto multirazziale. Il che vuol dire piena di poveracci o quasi.

Prima della gara, Garcia ci aveva caricati a dovere. Ci rivelò che la nostra principale antagonista, la Ben Franklin, contro ogni logica, aveva perso l’ultima partita contro San Martin. Vincendo, saremmo tornati in testa al girone e ci saremmo qualificati per i play-off dello stato della Louisiana. Il titolo, contro ogni previsione, era ancora a portata di mano.

Si prende a giocare e si sa, il calcio a volte è strano. Due azioni fanno loro. Due. Nemmeno il tempo di prendere le misure, palla sulla fascia, cross al centro e goal. E poi di nuovo: palla sulla fascia, cross al centro e goal. Dopo cinque minuti siamo sotto 0-2.
“Fucking spick” mi urla in faccia un avversario, per prendersi beffe di me. Spick è il nomignolo razzista che si dà agli ispanici, non può sapere che sono italiano. Me la lego al dito, ma tengo il sangue freddo. Prima o poi la paga.
Brian Valencia, origini colombiane, suona la carica. Orchestra il gioco da par suo, come centromediano. Triangola con me, che faccio da sponda e lo metto in porta. 1-2.
Palla al centro e si riparte. Il terreno è fangoso, a New Orleans piove sempre e dopo un quarto d’ora siamo tutti inzaccherati. In mischia, Carlos Zelaya, il nostro indolento centravanti honduregno, trova il pertugio giusto, piazza la botta e pareggiamo.
Allo scadere del primo tempo, calcio d’angolo. Mio fratello, Allen, svetta di testa e insacca: 3-2.
Il pubblico a bordo campo, formato dai nostri compagni di scuola visto che giochiamo in casa, anche se siamo in un campetto di periferia a due passi da un bayou, esplode al fischio dell’arbitro. Non sanno nemmeno che a calcio si giocano due tempi. La partita non è finita.

Nell’intervallo, abbiamo tutti la lingua fuori. In quel campaccio è dura far scorrere la palla. Ancor più dura correrci sopra, che si sono formate buche dove perderci le caviglie. Ci diciamo che dobbiamo amministrare il gioco. Anzi no, sono io che lo dico, che da bravo italiano conosco la tattica, aspetto sconosciuto da quelle parti. Nessuno mi ascolta.

Si riprende a giocare, la palla ristagna a centrocampo. Nessuno ha più la forza di attaccare.
Poi, dal nulla, ecco che parte un tiro alla disperata, calciato da quello stesso stronzo che mi ha insultato. La palla è apparentemente innocua, rimbalza davanti al nostro portiere, un guatemalteco di nome Figueroa, che la osserva tranquillo, lasciandola sfilare, a un metro dal palo. Poi, d’improvviso, il patatrac: la palla rimbalza su una zolla, gira di novanta gradi, colpisce un’altra zolla, altra piroetta di novanta gradi e finisce nell’angolino. 3-3.
“What is this?” allarga le braccia Bevin, che viene dall’India, anche lui exchange-student, e gioca mezz’ala come me, lui a destra io a sinistra, in quello che dovrebbe essere un 4-3-3, ma ormai non ci si capisce più niente.
Riprendiamo ad attaccare a testa bassa, che un pareggio non serve a nulla. A furia di dai e dai, è proprio il più cicciotello di tutti, la nostra ala destra del Nicaragua, Douglas Espinoza, che correre non corre, ma ha una bella pacca. Tira da fuori area e tra una selva di gambe la mette dentro non si sa bene come. 4-3!

Sul finire della partita, riesco a mangiarmi un goal a due passi della porta. Con le ultime forze rimaste, mi lancio in area su un cross teso di John Leyell, uno dei pochi americani purosangue della squadra. Allungo il piede per insaccare in spaccata, ma la palla si alza inesorabilmente oltre la traversa. Porca troia. Anzi fuck! Come ormai ho imparato a dire.
Dovessimo pareggiare per questo, non me lo perdonerei mai. Chiedo quanto manca. E’ finita dicono. E allora prendo la mira. All’ultima palla contesa, stendo lo stronzo con un calcio all’altezza del ventre. Lo vedo rotolare a terra, dolorante ai gioielli di famiglia e sputo per terra a un centimetro dalla sua faccia.
“Fuck you! Racist pig!” aggiungo, prima che l’arbitro tiri fuori il cartellino rosso e mi cacci fuori.
Pochi secondi dopo, fischia la fine e io vengo sollevato in tripudio. Perché non basta vincere, con quelli della Newman. Bisogna proprio stangarli. E nonostante il goal mancato, sono l’eroe di giornata. Chiamalo fair-play.

Ed è così che qualche settimana dopo, in gita premio, mi ritrovo su una canoa, lungo il Buffalo River, in mezzo alle Ozark mountains dell’Arkansas.
“You know how to work this shit?” chiede mio fratello che invito a sistemarsi davanti. Io mi piazzo dietro, perché in teoria è quello il posto da cui si conduce una canoa, ma le mie uniche esperienze sono state a bordo di un canotto quando andavo a fare le vacanze in Salento con i miei, da bambino.
Alla fine, ce la caviamo. Il fiume scorre placido e non c’è molto da preoccuparsi. Oddio, un passaggio cruciale c’è. Una curva, con al centro un masso, che divide il fiume in due, in rapide cascatelle.
Elzy e Tim si sono appena cappottati e stanno cercando di recuperare la loro canoa a nuoto. Dico ad Allen di remare più forte che può, mentre cerco di mantenere la giusta direzione, da poppa. Sfioriamo il masso senza conseguenze.
Sul fiume, flottano le lattine di Dixie Beer rovesciate dall’imbarcazione di Elzy e Tim. Tutti si divertono a ripescarle dando vita a quello che passerà alla storia come il “Party on the River”.

La sera, dormiamo accampati sulla riva del fiume che ci vorranno due giorni per rivedere anima viva. La natura americana è talmente vasta che lascia senza fiato. Quella notte, Garcia improvvisa una lezione di astronomia a cielo aperto. Le stelle brillano come non le ho mai viste. Sembra quasi di poterle toccare. La Via Lattea è una scia inequivocabile. E poi Orione, e l’Orsa Maggiore, che in inglese si dice Big Dipper e ancora mi chiedo perché e Garcia che ci indica le costellazioni una ad una.

E mentre penso a tutte queste cose e ho quasi le lacrime agli occhi, ecco che arriva una mail proprio da mio fratello, Allen.
“Say bro, remember this?”
E’ una foto di allora. Con io, steso nel sacco a pelo, dentro la tenda, con nessuna voglia di andarmene, dalla riva di quel fiume.
Happy days.

Ps.
Purtroppo, in semifinale, abbiamo perso 1-0 contro quelli di Jesuit, a un passo dal giocarsi il titolo di campioni della Louisiana. Ma fa lo stesso. Non c’è stata partita. Loro sono una scuola molto più grande della nostra e hanno almeno trenta giocatori disponibili. Nelle regole del calcio giovanile, in America, si potevano fare sostituzioni continue, come a basket. Ricordo di avere inseguito la rotazione dei tizi che giocavano nella mia zona, con i polmoni che mi scoppiavano, senza mai riuscire a superare la metà campo. L’unica via d’uscita era giocarsela ai rigori, ma un golletto ce l’hanno fatto.
“I’m in peace” pare che io abbia detto, dopo la fine di quella partita. O almeno così ricorda Garcia, solenne, quando anni dopo torno a New Orleans e ci ritroviamo con tutti quelli della squadra per un barbecue in giardino.
Secondo me si sbaglia. Credo di aver detto “I’m in pieces” che non so se sia corretto, in inglese, ma era la verità. Dopo quella semifinale, contro quella schiera infinita di avversari che entravano freschi freschi in campo, stavo a pezzi.
Ma va bene lo stesso. Il miracolo di quella nostra squadra, composta da almeno otto nazionalità diverse è rimasto nella storia del Redeemer High. Che oggi non c’è più. L’uragano Katrina se l’è portato via, nell’agosto del 2005. Per fortuna, nessuno dei miei compagni ci è rimasto sotto.

Potrebbe interessarti anche