The Italian Lockdown – Cronache da un Paese in Quarantena: 29. Fernwood, Big Sur, California

di Lorenzo Favella

Pubblicato il 2020-04-22

Giornate noiose. Progetti interrotti. Ricordi che appaiono, indelebili. Una notte particolare, dalle parti di Henry Miller. Mercoledì, 22 aprile 2020. Avevo iniziato a pubblicare queste cronichette, armato delle migliori intenzioni. Per mettere nero su bianco cosa sarebbe successo, giorno dopo giorno, promettendomi di essere il più brillante possibile e regalare un sorriso, a chi legge. …

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Giornate noiose. Progetti interrotti. Ricordi che appaiono, indelebili. Una notte particolare, dalle parti di Henry Miller.

Mercoledì, 22 aprile 2020.

Avevo iniziato a pubblicare queste cronichette, armato delle migliori intenzioni. Per mettere nero su bianco cosa sarebbe successo, giorno dopo giorno, promettendomi di essere il più brillante possibile e regalare un sorriso, a chi legge.

Riuscirci, ormai, è un’impresa. Sono giornate tremende. Che si ripetono tutte uguali, soprattutto per chi, come me, da sempre lavora nel mondo dello spettacolo, che oggi è svanito e chissà quando mai tornerà.

La virologa in tv dice che dobbiamo abituarci a convivere col virus. Mi interrogo su cosa significhi esattamente e non riesco a darmi una risposta.

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Taci, che l’altra sera mi ha risposto una agente americana. Incontrata un anno fa, quando avevo presentato una serie che ancora non si capisce se si farà o no, ed oggi è più no che sì, ovviamente.

L’idea me l’aveva suggerita Mariangela. La mia sorellina, come mi diverto a chiamarla, perché di riffa o di raffa, abbiamo vissuto sette anni sotto lo stesso tetto, come coinquilini, tra piazza Vittorio e Trastevere.

Era ottobre, quando ancora si può andare al mare da ste parti, ed ero salito su in Toscana, alla spiaggia di Macchiatonda, per stendermi al sole e liberare la fantasia.

Non che funzioni sempre così. Anzi. Spesso, è assai meglio chiudersi in casa davanti al computer acceso. Invece, quella volta, facendo un bagno, nuotando ad ampie bracciate, mi salì in testa una scena.

C’era sta ragazza, in un collegio, che contava fino a dieci, con la testa piegata sul tronco di un albero. Le altre si sparpagliavano come api impazzite nel bosco adiacente. Salvo una. Che non appena arrivava il dieci, si avvicinava per baciarla. Poi, piombavano le suore. La punizione. Ed ecco che lei, Valentina, si risvegliava anni dopo in una camera d’albergo, a Milano, nel 1969, le lenzuola bagnate da un orgasmo notturno. Un uomo al suo fianco e una pistola sul comò.

Non fatemi entrare nei dettagli. Era un buona idea per iniziare una serie che voleva raccontare gli anni ’70 e, tra le altre cose, la presa di coscienza delle donne riguardo la propria sessualità.

Anche ai produttori era piaciuta. Tanto che, fino a questo momento, l’idea è rimasta così come l’ho immaginata. Cosa che non succede tanto spesso. Ma va a sapere, ora, che ne sarà di sta serie.

Il pensiero corre ad alcune notizie bizzarre che ho letto di recente. Da qualche parte, una donna si è stesa nuda su un’auto della polizia. Altre si sono messe in balcone a prendere il sole, anche loro completamente nude. Ieri, la mia donna delle pulizie si è proposta di violare il lockdown e venire da me. Le ho detto che non era il caso.

E così, di pensiero in pensiero, ecco che mi torna alla mente un’avventura vissuta in California, diversi anni fa. Avevo raggiunto San Francisco in macchina, assieme a due amici che però dovevano tornare a Denver, dove stavano studiando per un master. Nell’albergo in cui alloggiavamo, avevamo conosciuto Beatrice, un’anima persa.

Avevo accompagnato gli amici all’aeroporto e poi, con lei, avevo puntato verso sud, per raggiungere Los Angeles lungo la Highway 1 che procede bordeggiando la costa.

Ricordo che avevamo passato una splendida giornata, fermandoci a pranzare a Monterey, in riva all’oceano, dove i gabbiani la facevano da padroni.

La sera, ci siamo fermati lungo la strada, in pieno Big Sur, in un posto che ricordo ancora. Fernwood, si chiamava. Un motel, un distributore, un piccolo ristorante, tutto immerso in un bosco.

Doveva essere una semplice stazione di passaggio, in attesa di ripartire l’indomani. Poi, di colpo, arrivò una banda di persone in vena di far festa. Il locale era piccolo e non ci è voluto molto per essere coinvolti.

Jenny menava le danze e non solo.

Gli shot di tequila hanno preso a succedersi, uno dopo l’altro, ma non venivano trangugiati al banco. No. Prima, bisognava cospargersi il collo di sale, ognuno leccava il collo dell’altro e poi giù, tutto d’un fiato.

C’era anche un juke-box, vecchia maniera, e ci siamo fatti tutte le canzoni possibili, ballando nella piccola saletta.

Mr Jones dei Counting Crows, andava per la maggiore.

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A un certo punto, durante un lento, Jenny mi ha messo le braccia al collo e ho pensato che si fosse interessata a me, poi mi ha sussurrato all’orecchio tutt’altre intenzioni.
“Sei molto amico di Beatrice?”
“A dire il vero no. L’ho conosciuta giusto ieri e stiamo solo facendo il viaggio assieme, verso Los Angeles.”
“I wanna do her” mi ha risposto. Una espressione in inglese che non avevo mai sentito prima. Che non ho avuto difficoltà a capire.

Era una questione che riguardava loro due, fondamentalmente.

Dopo un po’, Beatrice mi ha detto che Jenny l’aveva invitata a casa sua, in un cottage lì vicino. Per me, non c’erano problemi. L’avrei attesa il giorno dopo, per riprendere la strada assieme.

Jenny era molto insistente e pure molto simpatica. E Beatrice sembrava interessata.

Arrivati a una certa ora, tutti stanchi di leccarsi il collo a vicenda, barcollando sulle gambe, abbiamo cominciato a crollare. Il locale doveva chiudere e meno male che il motel era a due passi.

Ho preso le chiavi, le ho infilate nella toppa e mi sono cacciato a letto, distrutto.

Credo di essermi addormentato all’istante. Poi, non so quanto tempo dopo, ho sentito Beatrice che rientrava.

“Non sei andata con Jenny?”
“No” ha risposto, infilandosi nel mio letto.

Il resto, lo ricordo a sprazzi. La mattina dopo, invece, la ricordo benissimo. Ho riaperto gli occhi, trovandomi il viso di Beatrice che mi puntava fisso, a pochi centimetri da me.

“Bastardo” mi ha detto.
“Eh?” ho risposto.
“Mi hai violentato.”

Ancora perso nei fumi dell’alcool, ci ho messo un po’ a capire. Quegli occhi fissi, però, mi costringevano a dare una spiegazione.
“Scusa un secondo. Se ricordo bene, sei stata tu a venire nel mio letto.”
“Sì.”
“E se non ricordo male a un certo punto me l’hai anche preso in bocca.”
“Sì.”

A quel punto, era ovvio che l’accusa pronunciata poco prima era priva di qualsiasi fondamento.
“Lo so. E’ questo il mio problema” ha preso a dire Beatrice. “Mi sento lesbica, ma mi piace il cazzo.”

Si vede che tirava una certa aria, a Big Sur. Non a caso, per diversi anni, ci aveva abitato anche Henry Miller.

 

foto copertina da qui

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