The Italian Lockdown – Cronache da un Paese in Quarantena: 19. Maddalena

di Lorenzo Favella

Pubblicato il 2020-04-01

Una telefonata al mattino. Un ricordo che si mischia a sogno. Una schiena spezzata, anzi no. Il sospiro di sollievo, alla fine, si fa beffe di Freud. Mercoledì, 1 aprile 2020. Mia madre mi chiama, verso le sette del mattino. Non ha trovato la cronichetta, pubblicata sul giornale. “Ho saltato un giro, mamma, ogni tanto …

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Una telefonata al mattino. Un ricordo che si mischia a sogno. Una schiena spezzata, anzi no. Il sospiro di sollievo, alla fine, si fa beffe di Freud.

Mercoledì, 1 aprile 2020.

Mia madre mi chiama, verso le sette del mattino. Non ha trovato la cronichetta, pubblicata sul giornale.
“Ho saltato un giro, mamma, ogni tanto capita. Non mi hanno chiesto di pubblicare tutti i santi giorni. Però ci provo.”
“Ah. Tu stai bene, vero?”
Ho il naso che mi cola da due giorni, le palpitazioni in piena notte, i sudori da andropausa, ma non le dico niente di tutto questo. Non sono mai stato ipocondriaco in vita mia, è solo per via della quarantena, mi dico.
“No, perché sai, qui al nord muoiono tutti a pilucco” mai sentita questa espressione. Sono settimane che la ripete. “Non si può mai sapere! Metti che finisci in ospedale e ti si scarica il cellulare…”
Grazie mamma. E’ esattamente quello che ci vuole, prima di iniziare la giornata.
Le chiedo di passarmi Angela, ma pare che dorma e le dico di lasciarla in pace. Unito a mia sorella, da quel filo che ci lega da sempre, decido di fare altrettanto.

Sono andato a letto tardi, guardando Trump in diretta sulla CNN, che ha trovato il modo di fare il cowboy, come lui stesso dice. Fino all’altro giorno, il corona virus era un’influenza del cazzo. Dalla scorsa notte, se gli Stati Uniti riescono a limitare il danno a 100,000 morti, sarà un successo. Doctor Fauci, un italoamericano che presiede la task force alla Casa Bianca, l’ha avuta vinta. Da oggi, la vittoria sarà decisa dal numero delle vittime.
“Politics don’t dictate measures, the virus does.”

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Mi rotolo nel letto, ripensando a quelle parole tagliate con l’accetta. Gli Americani hanno senz’altro una qualità: il dono della sintesi. Talvolta spettacolare, talvolta agghiacciante.
E così, con quelle voci in testa, attorcigliandomi tra le lenzuola, cerco di riprendere sonno. Solo che ormai, già mi ci vedo, a prendere la macchina e risalire su, il giorno che non dovessi più sentire mia madre o mia sorella, rispondere al telefono…

A correre in macchina, si sa, può anche finire male. Ricordo bene il giorno del mio ventottesimo compleanno. Fu il giorno in cui per poco non mi ruppi l’osso del collo e ci andai davvero vicino.
Avrei potuto essere uno dei tanti che trovano scritta la parola fine su qualche pezzo d’asfalto, tra il casello di Modena Sud e Modena nord, una morte anonima e stupida come tante altre, il Vietnam della mia generazione.

Ricordo le luci blu della polizia. Il mondo visto in posizione orizzontale, guardando dal basso verso l’alto. Il poliziotto che per poco non vomita vedendo la mia faccia insanguinata.
Ricordo poi quell’infermiere, sull’ambulanza, che per giustificare le sirene spiegate mi diceva “Non si preoccupi, sa, è la prassi”.

Mi misero sotto macchinari spaziali. “Ti facciamo un po’ di foto” mi dicevano, io non capivo. Mi misero dentro a un tubo, la TAC, che si muoveva un centimetro alla volta, ed io che me ne stavo sdraiato ed ero tutto un dolore dalla testa ai piedi, e quel tubo non finiva più. Un inferno.
Arrivarono poi un sacco di facce, più o meno tutte gentili. Ed è probabile che già in quella notte la vidi, ma francamente non ne sono molto sicuro.

Il mattino dopo, invece, me la ricordo benissimo. Nonostante la botta, il viaggio all’ospedale, il tubo e le flebo infilate nell’avambraccio, ero riuscito ad addormentarmi lo stesso. C’era ragione di essere stanchi morti dopo un’avventura del genere, ma probabilmente era solo l’effetto della morfina.
Avessi trovato la forza, avrei di certo imprecato quando arrivò ad aprire le finestre. Cavolo, non era ancora spuntata l’alba, che razza di orari avevano in quel posto…
La rabbia mi passò quasi subito. Il tempo di stropicciarmi gli occhi e mettere a fuoco una chiazza che si era fermata davanti al mio letto: una testa. Con un ciuffo di capelli color aragosta.
“Buon compleanno!” sentii dire. E vidi quella ragazza dai capelli colorati che si sforzava di sorridermi, nonostante la situazione.
“Grazie” ebbi appena la forza di rispondere. Che nascere il primo di aprile è già di per sé una condanna.

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La mia voce si era quasi del tutto persa, dopo l’incidente. Maddalena si rivelò subito comprensiva. Annuì con il capo e mi invitò a non sforzarmi inutilmente. Prese poi ad armeggiare con le flebo sostituendo le bottigliette di liquido, che a prima vista sembravano tutte uguali. Non era vero.
Quelle con l’etichetta blu contenevano antidolorifico, una vera manna. Per alcune ore i dolori scomparivano come d’incanto, lo scoprii con il passare del tempo. Ma il primo giorno non sapevo ancora certe cose.
Osservavo solo quell’angelo su di me che sistemava ogni cosa facendo bene attenzione che le gocce filtrassero, né troppo forte né troppo piano, dalla bottiglietta attraverso il tubino di gomma, fino a scomparire nella vena del mio braccio sinistro.

Il mio primo incontro con lei finì così, senza neanche un saluto. Io ero troppo debole per inventarmene uno, lei sarebbe tornata presto, come era nella prassi del suo lavoro. Ma io, davvero, tutte quelle cose non le sapevo. Non avevo mai messo piede in un ospedale prima d’allora.

Quella mattina arrivarono anche i medici. Erano vestiti come gli infermieri, in camice. Era però facile individuarli. Loro parlavano e gli infermieri ascoltavano. Alcuni parlavano più degli altri, a seconda del carattere.
Mi fu altrettanto facile capire quel che dovevo fare quando uno dei medici si rivolgeva a me: ascoltavo anch’io quel che aveva da dirmi. Non molto per la verità. Mi ero rotto la schiena.
“Settima dorsale” dissero un giorno, tastandomi le dita dei piedi per vedere se reagivano.
Per il resto, non aggiunsero granché. Prognosi? Chissà.

Angela e mia madre erano morte nel frattempo, evidentemente. Nessuno mi veniva a trovare e tutti erano tanto, troppo indaffarati con il covid-19, come lo chiamavano in ospedale.
E in quella solitudine, tutta quella gente che andava e veniva, in fondo, non mi dispiaceva. Per rimanere soli, tanto, c’era la notte.

L’unico fastidio lo davano i lavori che facevano durante il giorno, per allargare l’ala dell’ospedale vicino a quella dov’ero io. C’era bisogno di altri letti, evidentemente.
Per evitare di sentire tutte quelle martellate affittai un televisore. Erano davvero attrezzati in quel posto. Un giorno arrivò un tizio e me lo installò sulla spalliera del mio letto. E a quel punto, con i pasti che arrivavano puntuali, ogni giorno, c’era di che sentirsi protetti dal sistema sanitario nazionale.
Anzi, mi resi conto che dovevo limitare un po’ il mio entusiasmo, se non volevo rischiare di essere mandato a casa prima. Mi piaceva stare in mezzo a tutta quella gente con i camici bianchi. Davano una sensazione di sicurezza. E poi c’era lei, Maddalena. Imparai il suo nome leggendolo sulla targhetta.

Non passava giorno senza che mi comparisse davanti, sempre con il sorriso stampato sulle labbra. Con il passare del tempo cominciammo pure a scambiare quattro chiacchiere. Anch’io, grazie al cielo, avevo recuperato la voce e qualcosa riuscivo a rispondere. Era di solito lei a voler sapere. Si stupiva che non venisse mai nessuno a trovarmi. Le spiegai che non avevo i genitori, che anche mia sorella doveva essere morta, che nella vita sapevo solo scrivere e chissà se ci sarebbe stato bisogno di scrittori nel futuro.
Maddalena mi guardava strana, quando le parlavo, ma almeno mi ascoltava, fino alla fine, e prima di lasciarmi recuperava sempre il suo sorriso.
“Ma tu, quando scrivi, entri nelle vite degli altri?”

Era davvero diversa. Mi aveva detto che il suo era un periodo di prova, per via del corona virus, ma non so se questo c’entrasse tanto. Capii che c’era qualcosa di speciale in lei il giorno che venne a pulirmi. Fu la prima e l’unica a lavarmi così a fondo, in quel modo.
Mi avevano messo il catetere, infatti, e nessuno prima di lei si era presa la briga di afferrarmi per bene l’uccello, tirando giù la pelle del prepuzio così da strofinare tutta la cappella. Lo so che in quella condizione di orfano, con tutta quella gente che moriva a pilocco, come avrebbe detto mia madre, non sarebbe il caso di entrare in certi dettagli, ma… Era fantastico.
L’unico problema è che rimanevo con l’uccello duro e non so se vi è mai capitato, ma averlo duro con il catetere infilato dentro non è affatto un piacere. Anche a questo però trovai rimedio, una notte che guardavo la televisione.

C’era un film con Jack Nicholson, l’attore americano che più adoravo, assieme a Jessica Lange, quella di King Kong.
Lavoravano tutti e due ad un distributore e mi sa proprio che fosse il remake di Ossessione di Visconti, anche se non saprei dire, perché ho beccato il film che era già iniziato.
A un certo punto, mentre Jessica è in cucina a far da mangiare, Jack arriva da dietro e se la scopa sul tavolo. Io sto bevendo un bicchiere d’acqua con la cannuccia, quando a vedere quella scena ho cominciato a sentire che mi diventava duro, ma duro sul serio, e mi faceva male, da morire. Allora ho preso il bicchiere e me lo sono rovesciato addosso. La televisione no, non l’ho spenta, volevo sapere come andava a finire.

Quella volta mi sono bagnato tutto, però poi ho imparato ad usare la cannuccia: con un dito sul buco di sopra, basta sollevarla dal bicchiere e un po’ d’acqua resta dentro. Poi, basta tirare via il dito dalla cannuccia, posizionarla sopra l’uccello e quelle poche gocce bastano a calmarlo.

Cominciai a fare così, ogni volta che Maddalena finiva di lavarmi.

Mi sentivo davvero in forma ed ero talmente felice che un giorno trovai il coraggio di dirle che per me lei era una ragazza bellissima, la migliore lì dentro, e il suo ragazzo era di certo il più fortunato di tutti. Ma mentre le dicevo quelle cose, con il mento che tremava dall’emozione, la vidi cambiare espressione. Non se l’era presa per quello che le avevo detto, no. Anzi mi carezzò un braccio. Le piacevano le mie braccia, si divertiva perché non riusciva mai a trovare le vene per infilarci la flebo.

Mi disse che lei il ragazzo non ce l’aveva. Lo disse in modo strano, guardando verso la finestra dove costruivano la nuova ala per i contagiati. Mi sembrò quasi che stesse per mettersi a piangere, ma forse sono io che esagero.

Quel giorno, però, se ne andò senza ritrovare il suo solito sorriso. Passai la notte in bianco, nel timore di aver detto qualcosa di sbagliato. Inoltre era sabato. La domenica i turni erano ridotti e ancora non sapevo se lei sarebbe venuta. Aspettare fino a lunedì in quel modo…
Forse mi ero davvero spinto troppo in là, forse avrebbe cambiato reparto pur di evitarmi… E invece no: Maddalena non ce l’aveva con me e quella domenica mattina arrivò puntuale, come al solito, a darmi la sveglia.

Aprii gli occhi e mi trovai davanti il suo sguardo, più intenso del solito. Non avrei saputo dire perché, ma nell’ospedale non c’era più nessuno. Tutti morti di covid-19.
Mi chiese se davvero non avessi nessuno nella vita. La vidi decisa più che mai, mentre afferrava la spalliera del letto e mi spingeva fuori dalla stanza.
Attraversammo un paio di corridori, tutti vuoti. Salimmo un piano con l’ascensore e infine arrivammo in quella che doveva essere l’ala dell’ospedale in costruzione. C’erano un sacco di arnesi abbandonati per terra, i muratori non sarebbero tornati prima di lunedì.
Maddalena fermò le rotelline del letto e si tolse le scarpe. La guardai pieno di curiosità ed anche con qualche timore. Aveva gli occhi spalancati, pareva pronta a tutto. Non che dovessi aspettarmi niente di male da lei, ma non l’avevo mai vista così. Salì sopra al letto e si liberò del camice. Poi si tolse le mutande. Sollevò il lenzuolo che mi copriva e vide anche lei come mi era diventato bello duro. Faceva un male cane con il catetere. Mi disse che al tre dovevo tirare forte il fiato.

Contai: uno… due… al tre respirai e non feci in tempo a urlare che lei aveva estratto il catetere con un colpo netto.
Pensavo mi avesse tolto le budella, ma quando vidi il mio uccello ancora bello duro davanti a lei, capii che era solo un’impressione.
Maddalena lo prese tra le mani e montandomi sopra se lo infilò tra le cosce. Si morse le labbra ed emise un gridolino. Io sentii caldo caldo, dentro di lei, e dimenticai tutto. Chiusi gli occhi, o quasi.
Maddalena saliva su e giù, davanti a me. Ansimava. Sudava. Gemeva con la lingua mezza fuori. Sembrava una cagna, mi piaceva tantissimo.
Presi pure io a spingere. Il dottore mi aveva detto di stare fermo e calmo, ma erano già passate due settimane e Maddalena correva su e giù, sopra di me.

Come Jack Nicholson. Io ero Jessica Lange.

Provai a spingere anch’io, sempre di più, sempre più forte, veloce, rapido. E sentii lo sperma montare centimetro dopo centimetro, come la TAC. E lei che saltava, assatanata. Era duro tenerle dietro. Spinsi io, poi lei, poi io, poi lei. E sentii una fitta tagliarmi il corpo in due.
Venni dentro di lei che urlò.

Io urlai molto più forte, però. E subito arrivò gente, ci fu un casino bestiale. Mi ricordo a malapena Maddalena che raccoglieva il suo camice e si rivestiva, tra urla di medici e infermieri che arrivavano di corsa.
Mi portarono via, non ricordo dove, e da allora non l’ho più vista.
Seppi poi che era stata licenziata. Mi chiesero se avevo intenzione di denunciarla per via della mia schiena spezzata, attorno alla settima dorsale, e risposi di no.

Poi mi arriva una chiamata di Angela.
“Mamma ha detto che volevi parlare con me, stamattina.”
Ci ho messo un secondo, diciamo due, a rimettere a fuoco le cose.
“Senti Angela, ma tu… ti sei mai dipinta i capelli di rosso?”
Si è presa un tempo, prima di rispondere. Poi…
“No, di rosso no. Una volta bionda, una volta blu. Ma di rosso proprio no. Perché?”

Grazie a Dio, ho pensato. Chissà chi era, Maddalena.

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