The Italian Lockdown – Cronache da un Paese in Quarantena – 23. Guerra e Pace

di Lorenzo Favella

Pubblicato il 2020-04-07

Enrico. Il Conte. Mio padre. Come leggere un romanzo e perché. La collina dei Passeri. Mosca. Vita e morte. Austerlitz e navate sensazionali. Martedì, 7 aprile 2020. Ricordo bene quando ho dovuto adattare per la televisione il romanzo Guerra e Pace, scritto dal Conte. Che ormai lo chiamavamo così, con Enrico. Tra una stesura e …

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Enrico. Il Conte. Mio padre. Come leggere un romanzo e perché. La collina dei Passeri. Mosca. Vita e morte. Austerlitz e navate sensazionali.

Martedì, 7 aprile 2020.

Ricordo bene quando ho dovuto adattare per la televisione il romanzo Guerra e Pace, scritto dal Conte. Che ormai lo chiamavamo così, con Enrico.

Tra una stesura e l’altra, ci abbiamo lavorato sopra per due anni.
Due anni alle prese con un romanzo torrenziale, che ad ogni lettura permetteva di pescare nuove pepite d’oro, leggi scene, per noi sciacalli, senza sapere perché fossero sfuggite alle precedenti occhiate.

Enrico aveva una sua teoria.
“E’ un romanzo che va letto più volte nella vita. Oggi, amerai Pierre, Andrej o magari, più probabilmente, Nicolaj. Perché tu sei Nicolaj, oggi. Un domani, invece, finirà che ti immedesimerai nel vecchio Bolkonskij.”
Quanta ragione c’era nelle sue parole.

Avevo quarant’anni e lui il doppio di me, ottanta.
Una delle scene più riuscite, nello sceneggiato, era una lite tra il vecchio Bolkonskij e la Dubretskaja. Una scena che nel romanzo non c’è, inventata da noi. Enrico aveva scritto i dialoghi.
Mi erano sempre sembrati un po’ lunghi, poi, grazie a due attori fenomenali come Malcom McDowell e Brenda Blethyn, si è visto che non c’era davvero nulla da togliere. La scena era perfetta. Anzi, quasi volevi che non finisse mai, quella battaglia tra vecchiacci.

Un’altra teoria di Enrico sosteneva che un romanzo così non si poteva capire del tutto, senza poterlo leggere in russo. E qui diventava tutto più difficile.
E attenzione che Enrico, il russo non lo conosceva, io nemmeno, ma quando ci diedero la luce verde per procedere con le sceneggiature, me ne andai a Mosca per un mese, proprio per capire cosa fosse quel luogo e cosa potesse significare quel romanzo, per quella gente, per quella famosa, indecifrabile anima russa.

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Abitavo vicino alla metro Smolenskaja, non distante dalla casa del Conte, che andai subito a visitare, con la babushka che intimava di mettere il cellophane ai piedi, per non sporcare. E poi via Povarskaja, dove un tempo abitavano i Rostov e, tra i tanti palazzoni cresciuti come funghi, era comunque rimasta una antica villa dal colore celeste dove potevi ancora immaginare che Anatole potesse arrivare con la sua carrozza per rapire Natasha e portarsela via con sé.

Un giorno, andai a visitare il museo della battaglia di Borodino. Una sorta di palazzetto dello sport dove potevi passeggiare e vedere e sentire gli spari e i botti dello scontro finale tra l’armata di Napoleone contro l’ultima difesa della madre patria. Un macello da cui nessuno uscì vittorioso.
Il Conte sosteneva che Bezuchov, il generale in capo dell’esercito russo, prese la giusta decisione nel ritirarsi.

Napoleone arrivò a Mosca trovandola vuota. Era entrato a Vienna, a Berlino, in tante città europee, ma a Mosca no, nessuno venne ad accoglierlo, men che meno ad omaggiarlo.

La scena, descritta nel romanzo, risulta esemplare.
Napoleone, in cima alla collina de Passeri attende le autorità della città. Si ritrova davanti un attendente che galoppa fino ai suoi piedi e gli rivela: la città è vuota!
Le Ridicule, dice il Conte.

L’Incredibile, fu per me.

Per anni, avevo sognato, da bambino, una città dove potessi andare a sciare senza dovermi fare ore e ore di macchina o corriera, all’andata e ritorno. Una collina innevata dietro casa. Con le seggiovie e le piste da sci. A Mosca, c’era.

Diventai tutt’uno con quella città. Non parlavo russo, ma imparai presto a dire “ya nie gavariu pa russky” che quando incrociavo gente che mi chiedeva indicazioni quasi non ci credevano che il russo non lo sapessi parlare.

Se portavo una ragazza a casa, in cima al quattordicesimo piano del palazzone sovietico dove abitavo, scendevo sempre giù per sincerarmi che il tassista la riportasse indietro, sganciando i rubli necessari.

E vaffanculo alla babushka che rompeva le palle all’ingresso per chiedere i passport. Ciao, tata, la rivoluzione d’ottobre è finita da un pezzo, ormai.

“Insomma, hai fatto un po’ il Nicolaj della situazione” mi disse Enrico, il giorno che tornammo a vederci per confrontare le nostre puntate.
Quanto stavo bene, in quella sua tana appesa alla collina che portava verso il lago di Bolsena, che tante volte avrei fatto e rifatto, in bicicletta.

“Che mi dici della scena di Andrej, ad Austerlitz, prima della battaglia?”
“L’hai scritta bene. Ma è una di quelle scene che tocca sperare che il regista la imbrocca.”

Vero. Cosa c’era da aggiungere in una scena del genere?
Andrej non prende sonno e sale in cima a una collina, in attesa della battaglia del giorno dopo. Cerca la gloria, l’abbraccio e l’amore di gente che non conosce e che mai conoscerà
The rockstar scene, la chiamavo io, facendo sorridere Enrico.

Ora, porca di una madonna, Andrej si troverebbe a contare i numeri del corona virus. Quali però? Quali?
I ricoverati, i contagi, i morti?
Anzitutto, direi che i morti non è il giusto modo di conteggiare. Cioè, bisognerebbe capire quanti erano i morti l’anno scorso e quanti sono quest’anno, perché la gente muore, non si scappa.

Cerchiamo bene di capire qual è la differenza.

E poi, altra cosa, ragioniamo per bene su cosa è la vita. Perché me lo ricordo bene, quel giorno che passai con mio padre, preso da una SLA fulminante, che gli impediva di respirare.

“Papà” mi trovai costretto a dire. “I medici sono costretti a tenerti in vita, è il loro mestiere. Quindi vogliono fare la tracheotomia. Questo però significa che non parlerai più, non mangerai più, ti metteranno un tubo nello stomaco e da sto letto non ti alzerai più.”
“Decidiamo assieme” rispose lui, con occhi che non mi toglierò mai più dalla testa.
“No. Papà! Devi decidere tu. Sei cosciente. I medici dovranno per forza ascoltare te.”

Il giorno dopo andai in una cartoleria a comprare una lavagnetta con i pennarelli. La prima cosa che mi scrisse, mio padre, fu semplice: bella inculata.

Andò avanti altri tre mesi, poi per fortuna ci lasciò.

Ed ora, come Andrej, in cima alla collina di Austerlitz, vorrei capire…

Tutti sti numeri. Quali sono esattamente? Non rompetemi il cazzo con i contagi, voglio sapere la differenza tra i morti dell’anno scorso e quelli di quest’anno, perché la gente muore, certo, anche Enrico se n’è andato, anche mio padre, succede. Ma mi volete spiegare perché, se tutte le auto sono ferme, a Roma le polveri sottili sono altissime e io non riesco neanche più ad avviare la macchina, la batteria è scarica, e non vedo più niente circolare oltre a quello stramaledetto ottantuno che un tempo non passava mai ed ora è peggio di uno stracazzo di metropolitana demmerda.

Uff.

Mi sono sfogato, sì.

E allora posso tornare ai ricordi belli. A quella sera, sulla collina verso Bolsena, dopo una cena a casa di amici di Enrico.
Era buio e lui, alla sua età, faceva fatica a vederci, lungo quel sentiero.
“Posso appoggiarmi a te?” mi chiese.
“Figurati. Non ti preoccupare.”

“Eh, il bastone della mia vecchiaia” sospirò.
“O forse la vecchiaia del mio bastone” sancì.

Battuta sensazionale. Non ti chiamano a scrivere “C’era una volta in America” se non sei capace di guizzi del genere.

E io, che erano due anni che ci lavoravo assieme e spendevo e spandevo abbracci come Nicolaj, alla ricerca di amori non voluti, irregolari, mal corrisposti, mi resi conto solo allora di quanto ci amavamo e del perché piansi così a dirotto il giorno del suo funerale, nello spettacolare Duomo di Orvieto, che mi fece pensare che sì. Certi cattolici ci sanno fare. C’è davvero modo di andarsene, da questa vita, con grande stile e navate sensazionali.

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