Lo studio che spiega dove potrebbe essere il volo Malaysian Airlines MH370

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2017-10-24

Un gruppo di ricercatori di di un’università britannica e una canadese ha messo a punto un nuovo metodo per localizzare il punto d’impatto di oggetti che cadono in mare. Tra loro c’è l’italiano Davide Crivelli che ci ha spiegato come grazie alla loro teoria sarebbe possibile rintracciare il relitto del volo Malaysian MH370

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Come fare a trovare un oggetto caduto in acqua? Anzi — come fare a trovare un oggetto molto grande caduto in uno specchio d’acqua decisamente grande? Rewinding the waves: tracking underwater signals to their source, una ricerca pubblicata oggi su Scientific Reports e condotta da un gruppo di ricercatori tra i quali figura l’italiano Davide Crivelli, ingegnere meccanico e docente alla Cardiff University laureatosi al Politecnico di Milano, prova a trovare una soluzione al problema riavvolgendo il nastro delle increspature che si vengono a creare quando qualcosa cade in acqua.

Un nuovo modo per localizzare il punto di impatto di oggetti che cadono in mare

È davvero possibile? In un certo senso sì, se si hanno a disposizione gli strumenti giusti e se si sa cosa cercare ma soprattutto cosa ascoltare. In questo caso bisogna ascoltare le onde acustiche di gravità o acoustic gravity waves (AGWs) ovvero onde sonore che si muovono in profondità e possono misurare anche decine o centinaia di chilometri. Studiando la propagazione delle onde acustiche a bassa frequenza – come ad esempio quelle generate dagli impatti di oggetti sulla superficie oppure da espolosioni o terremoti sottomarini –  è possibile risalire alla fonte e localizzare il punto d’impatto di meteoriti, satelliti o anche velivoli.

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La cartina mostra i due idrofoni (HA01 e HA08) e il presunto punto d’impatto del volo MH370 e l’epicentro dei due terremoti (EQ1 ed EQ2)  [Fonte]
Il gruppo di ricercatori, composto da Usama Kadri, Davide Crivelli, Wade Parsons, Bruce Colbourne e Amanda Reyan ha iniziato il lavoro di ricerca spinto dal desiderio di localizzare i resti del volo Malaysian Airlines MH370 scomparso l’8 marzo 2014 con 239 persone a bordo. Ad oggi nessuno è riuscito a localizzare il luogo preciso dell’impatto nonostante i numerosi tentativi e gli sforzi compiuti dalla marina e dall’aviazione australiana. Proprio in questi giorni una società statunitense ha proposto alla Malaysian Airlines di riprendere le ricerche. Secondo il gruppo di ricerca che ha lavorato al paper il metodo di localizzazione messo a punto potrebbe essere in grado di calcolare e tracciare la provenienza di segnali sottomarini utilizzando la teoria delle onde acustiche gravitazionali. Questo ovviamente a patto di avere a disposizione registrazioni con una risoluzione e una qualità sufficientemente alta.

Malaysian Airlines MH370: come funziona il metodo messo a punto dalla Cardiff University

La prima parte della ricerca è consistita in un esperimento da laboratorio, svoltosi nel Towing Tank della Facoltà di Scienze applicate e ingegneria della Memorial University of Newfoundland in Canada. Durante l’esperimento i ricercatori hanno simulato le condizioni marine facendo cadere alcune sfere d’acciaio in una grande vasca registrando gli impatti con degli idrofoni. Per testare sul “campo” la loro teoria Crivelli e i suoi colleghi si sono serviti degli idrofoni del Comprehensive Nuclear-Test Ban Treaty Organization (CTBTO), un’organizzazione il cui obiettivo è arrivare al bando dei test delle armi nucleari.

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L’area dove si sono svolte le ricerche del volo Malaysian Airlines MH370 [Andrew Heneen via Wikipedia.org]
Il gruppo di ricerca si è servito delle registrazioni (circa 18 ore complessive) fornite da due stazioni d’ascolto del CBTO. Quella denominata HA01 si trova a Cape Leeuwin, nel sud-ovest dell’Australia; la stazione HA08 invece si trova nelle Isole Chagos, a sud delle Maldive. Gli idrofoni della stazione HA01 sono tre e sono collocati ad una profondità compresa tra i 1.385 e i 1.473 metri.
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La cartina mostra i due eventi (E1 ed E2) registrati il giorno 8 marzo 2014. “7th arc”  è l’ultima posizione nota del volto MH370. I rettangoli azzurri sono le due aree dove è più probabile che si avvenuto l’impatto [Fonte]
E qui ci sono i primi problemi tecnici, perché il presunto luogo di impatto del volo MH370 (determinato in base all’ultimo contatto satellitare) si trova in una porzione di Oceano molto trafficata. Vale a dire che le registrazioni sono disturbate da un rumore di fondo che ha reso poco utilizzabili le registrazioni della stazione HA08 a causa della vicinanza con la base militare USA di Diego Garcia. Grazie agli idrofoni però Crivelli e i suoi colleghi sono riusciti a localizzare l’epicentro di due terremoti Concentrando i loro sforzi sull’analisi dei dati registrati l’8 marzo 2014 all’interno della finestra oraria in cui si ritiene che il volo MH370 sia precipitato nell’Oceano Indiano il gruppo di ricerca è riuscito ad individuare due possibili punti d’impatto del volo della Malaysian Airlines.
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Il tracciato del segnale dell’esperimento e dei tre idrofoni della stazione HA01 il 7 marzo 2014 [Fonte]
Proprio a causa della scarsa qualità dei segnali a disposizione non si è riusciti a determinare il punto esatto dell’impatto. I dati dell’evento denominato “E2” sono stati registrati a 500 km di distanza dall’ultima posizione nota (denominata 7th arc) dell’aereo pochi minuti dopo l’ultimo contatto satellitare, questo significa che l’aereo avrebbe dovuto viaggiare a oltre tremila km/h per nove minuti. Questa eventualità è però ritenuta poco probabile dai ricercatori. Il segnale proveniente dall’evento “E1” invece è compatibile con un impatto avvenuto con un aereo che viaggia ad una normale velocità di crociera. Ci sono due possibili spiegazioni per spiegare quella posizione: il volo Malaysian avrebbe viaggiato per circa 50 minuti all’interno dell’area E1 prima di precipitare oppure per un tempo più breve e quindi il segnale proverebbe da un’implosione successiva o dall’impatto con il fondale oceanico.

Segnali sottomarini e come trovarli

Anche per non alimentare false speranze nelle famiglie dei dispersi i ricercatori volutamente non sostengono di aver “trovato” l’aereo. Abbiamo chiesto al Professor Davide Crivelli, che ha sviluppato una parte importante del lavoro di ricerca, di spiegarci quali prospettive apre questo nuovo metodo per rintracciare oggetti caduti in mare e quali sono state le difficoltà riscontrate dal team durante lo studio.
Dottor Crivelli, che ruolo ha avuto all’interno della ricerca sui metodi per localizzare il punto di impatto di un oggetto precipitato in mare?

«Personalmente ho lavorato sull’analisi dei segnali – filtraggio del rumore, calcolo degli angoli e ho sviluppato un metodo per “trovare” segnali nascosti dentro alle ore di registrazioni. Il mio collega Usama Kadri ha sviluppato la parte matematica – ovvero come calcolare la distanza di un evento (impatto o terremoto sottomarino) a partire dalla “forma” segnale ricevuto. I nostri colleghi dell’Università della Newfoundland si sono occupati degli esperimenti in piscina».
Quanto è grande l’area dove ritenete possa trovarsi il relitto dell’aereo?
«Le aree da cui abbiamo calcolato la possibile origine dei segnali (che non significa aver identificativo la posizione del relitto – solo un possibile impatto) sono lunghe circa 200km ma relativamente strette, perché la precisione sulla direzione da cui sono arrivati i segnali è molto più alta di quella sulla distanza – i segnali purtroppo sono molto rumorosi, ma i nostri risultati possono aiutare se associati agli altri dati a disposizione degli investigatori».
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Investigatori esaminano una parte dell’aereo trovata in mare [Fonte]
Al di là dei segnali registrati dagli idrofoni del CBTO ci sono altri elementi che possono corroborare l’ipotesi che i resti dell’aereo si trovino in quella zona?
«Le autorità hanno a disposizione segnali satellitari (dalle ultime comunicazioni dell’aereo con i satelliti Inmarsat) e più recentemente delle immagini satellitari risalenti alla data della scomparsa, che hanno individuato oggetti in un tratto di oceano. Ci sono anche delle aree calcolate con modelli delle correnti, calcolate a partire dai luoghi in cui sono state ritrovate parti dell’aereo scomparso».
Quali sono state le principali difficoltà incontrate nell’identificare il punto di impatto del volo MH370 con il metodo ideato da te e dai tuoi colleghi?
«I dati sono molto confusi a causa del rumore causato dal vento in superficie, dalla presenza di navi e altre sorgenti di rumore – il filtraggio e l’elaborazione dei segnali ha impiegato molto tempo».
Che ulteriori sviluppi ci possono essere per questo metodo di ricerca e quali sono i suoi limiti?
«Possiamo valutare la distanza di altri oggetti che impattano la superficie del mare – per esempio meteoriti o satelliti in rientro. Oppure (ma spero non sia necessario) altri aerei dispersi. Possiamo anche localizzare terremoti sottomarini, e aggiungere dati alle rilevazioni dei sismometri».
Avete notificato l’esito della vostra ricerca a qualcuno? Avete avuto risposta?

«Abbiamo inviato un report preliminare all’ATSB (Australian transport safety board) che ha aggiunto i nostri dati alle altre evidenze a loro disposizione».
Resta invece ancora da chiarire cosa abbia causato l’incidente occorso al volo Malaysian Airlines MH370 Tra le varie ipotesi più recentemente si è fatta strada la teoria di Simon Hradecky, editore di The Aviation Herald e con un passato da operatore radar, che coinvolgerebbe una collisione nelle prime fasi del volo, e considerando una virata anticipata del velivolo (questa tesi è compatibile con rilevamenti satellitari risalenti alla scomparsa, che hanno identificato detriti “di origine artificiale”). La traiettoria finale così modificata porterebbe l’aereo proprio nelle vicinanze della zona E2 proposta dagli autori dell’articolo.
 
Foto copertina Phoenix International’s Remora III remotely-operated vehicle in action in 2015. Source: Phoenix International via Atsb.gov.au

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