Il coraggio e il “metodo De Felice” contro il Fascismo degli antifascisti

di Amedeo Gasparini

Pubblicato il 2020-06-14

De Felice ha scritto che il danno più grosso fatto dal Fascismo «è stato quello di lasciare in eredità una mentalità fascista […] agli antifascisti […] Una mentalità fascista che va […] combattuta in tutti i modi, perché pericolosissima

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Da buono studioso, Renzo De Felice si è sempre sforzato di andare oltre la lettura scontata e superficiale del periodo fascista. Nella sua completa e notevole opera di ricostruzione degli avvenimenti attorno al fenomeno – anche grazie a quello che potremmo chiamare “metodo De Felice” – il professore romano ha cercato di evidenziare tutti gli aspetti, tutte le ragioni, tutte le colpe, in maniera scientifica e capillare. Ha avuto il coraggio di proporre non un “Fascismo alternativo”, ma di analizzare il periodo in maniera controcorrente, guardando al Fascismo nella sua totalità ed interezza, senza offrire ai lettori una visione tipicamente partigiana o faziosa. E siccome, come vuole la vulgata, la storiografia del Ventennio e del suo Duce la può fare solo la sinistra – a destra perde di credibilità e in un paese in cui si è tacciati di “fascista” ad ogni piè sospinto risulterebbe inutile ed infruttuosa – De Felice, di famiglia liberale e uomo non di destra, ha tentato di capire e studiare a fondo il fenomeno. Ed è stato ugualmente e spietatamente attaccato dagli antifascisti di professione.

Il coraggio e il “metodo De Felice” contro il Fascismo degli antifascisti

Aspre le critiche intorno al celebre libro defeliciano Intervista sul Fascismo, il pamphlet del giugno 1975 (quarantacinque anni fa); anno e mese in cui alle elezioni regionali il Partito Comunista Italiano batté per la prima ed unica volta la Democrazia Cristiana. Non era mai successo: certo, in passato il PCI si era avvicinato elettoralmente alla Balena Bianca, ma non era riuscito a superarla. La santabarbara verbale del PCI era piena zeppa di allusioni alla presunta “fascistaggine” dell’avversario dallo scudo crociato. Nonostante l’arma letale politica dell’Antifascismo – che automaticamente scomunica senza possibilità di appello qualsiasi avversario a prescindere – il partito delle Botteghe Oscure non ci riuscì a sorpassare quello di Piazza del Gesù alle politiche del 1976, quando molti elettori – per dirla con una nota, indelebile e fortunata espressione che spostò migliaia di voti – si turarono il naso e votarono DC.

Ad intervistare De Felice (maestro di Emilio Gentile e Paolo Mieli, tra gli altri) nell’Intervista un giovane Michael Ledeen, ebreo polacco, allievo dello storico del Nazismo George Mosse e all’epoca fresco di studi. Nel saggio De Felice ha cercato le spiegazioni e i motivi della nascita del Fascismo e delle decisioni prese dal vertice del movimento negli anni: e spiegare, o dare spiegazioni, non vuol dire giustificare. De Felice si è sforzato di sorvolare sulle letture consolidate e scontate del fenomeno fascista; con tutte le differenze, una sorta di Giampaolo Pansa ante litteram, in un’epoca dove anche all’estero diversi studiosi (come François Furet o Ernst Nolte) studiavano i movimenti totalitari nella più estrema controversia e solitudine all’interno del mondo accademico. Quanto a De Felice, non si può non riconoscergli il coraggio di aver esplorato neutralmente il tema più caldo del Novecento italiano ed esporlo in maniera sintetica e fattuale. Il “metodo De Felice” è basato sulla non-capziosità, in un paese fondato sull’estenuante e sterile divisione (ed invidia) sociale, nonché sull’assenza di una “memoria nazionale”, traducibile nella riluttanza di troppi italiani di fare i conti con la propria turbolenta Storia.

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Un’interpretazione “di sinistra” del Fascismo (che fu tra l’altro economicamente vicino a posizioni “di sinistra”) ha inevitabilmente i suoi limiti: non è che parziale; stessa cosa dicasi per un’interpretazione nostalgica. «Il Fascismo andava rivisitato, ristudiato, col maggior distacco, con la maggiore serenità possibile», scrive De Felice nell’Intervista. «Il Fascismo, che io chiamo “Fascismo storico” – come si è attuato fra il 1919 e il 1945 – è morto; è irresuscitabile. È una pagina chiusa, e proprio per questo è possibile studiarlo storicamente, con un metodo e una mentalità storici.» Non può che far ridere dunque l’odierna accusa di Fascismo nei confronti di alcune personalità della politica nazionale e internazionale corrente. Quella del Fascismo è una storia chiusa, che d’altra parte non può e non deve essere soggetta all’umidità di una biblioteca nei sotterranei, quanto oggetto da esaminare con cura e attenzione sotto la lampada e la lente d’ingrandimento della Storia.

De Felice ha sfatato anche un mito che negli anni è stato adottato – in malafede – da tantissimi circoli culturali: equiparare storicamente Nazismo a Fascismo. Due fenomeni molto diversi (ne La fine della Storia e l’ultimo Uomo Francis Fukuyama ha spiegato che «il Fascismo non era una dottrina universale», a differenza del Socialismo nazionale). E anche qui, apriti cielo! Nazismo e Fascismo (e Comunismo) sono uguali in quanto ideologie totalitarie, stataliste, liberticide e criminali; tuttavia, De Felice spiega che il primo «guardava al passato, voleva costruire una nuova società sulla base della tradizione, di elementi antichi e immutabili, in primo luogo la razza; al contrario, il Fascismo fondava la sua visione politica sull’idea di progresso. Corrispondentemente, nel Fascismo c’erano un ottimismo vitalistico e una proiezione verso il futuro che nel Nazismo risultavano invece assenti.» Sottolineare le differenze in sede storica vuol dire giustificare o essere filo-qualcosa? No di certo. Tentare di spiegare le sfumature di due sistemi totalitari – per altro ispirati ad un altro sistema, quello socialista – pur ribadendone la caratteristica criminale, corrisponde all’aderenza nei confronti dei medesimi? Di nuovo, no di certo.

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Ancora più storicamente scorretto è l’equiparare il Fascismo ai movimenti conservatori, cosa tornata di moda recentemente. «I regimi conservatori», continua De Felice, «hanno un modello che appartiene al passato, e che va recuperato, un modello che essi ritengono valido e che solo un evento rivoluzionario ha interrotto; bisogna tornare alla situazione prerivoluzionaria. I regimi di tipo fascista invece, vogliono creare qualcosa che costituisca una nuova fase della civiltà.» Il Fascismo vuole creare un uomo nuovo, una figura nuova, ma con ispirazioni dirette dal passato. Parte dell’umanità, «il Fascismo», ha scritto Madeleine Albright in Fascism: a warning, «non è un’eccezione dell’umanità, ma parte di esso.» A difendere De Felice dalle (ridicole) accuse – guarda a caso – di filo-Fascismo e revisionismo da parte di una ben nota e dominante intellighenzia da salotto “proletario a parole”, Rosario Romeo e il migliorista del PCI Giorgio Amendola.

De Felice ha scritto che il danno più grosso fatto dal Fascismo «è stato quello di lasciare in eredità una mentalità fascista […] agli antifascisti […] Una mentalità fascista che va […] combattuta in tutti i modi, perché pericolosissima. Una mentalità di intolleranza, di sopraffazione ideologica, di squalificazione dell’avversario per distruggerlo.» Il Fascismo degli antifascisti: dannoso, oggi come nel 1945 o nel 1975, al dibattito democratico. Tramite un metodo certamente innovativo e controverso nell’approcciare il Ventennio (cioè semplicemente quello di stare sopra le parti e analizzare le cose nel merito, senza lasciarsi prendere da odiose partigianerie), De Felice ha mostrato coraggio nel tentare di offrire agli italiani una visione moderna, completa, imparziale del Fascismo dalle origini alla disfatta. Sarebbe spettato ai suoi lettori coltivare e promuovere negli anni una visione altrettanto lucida, nonché l’elaborazione ragionata dei fatti (luttuosi) che hanno sconvolto un intero paese.

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