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Fedez è uscito dall’ospedale: le dimissioni dal San Raffaele | VIDEO
di neXtQuotidiano
Pubblicato il 2022-03-31
Fedez ha lasciato il San Raffaele dopo mezzogiorno: le dimissioni dopo l’intervento per il tumore neuroendocrino al pancreas
Fedez è finalmente uscitodall’ospedale San Raffaele. Come riporta Repubblica alle 12.19 ha prima salutato i giornalisti e poi è salito sulla sua auto, una Bmw nera, allontanandosi.
Fedez è uscito dall’ospedale: le dimissioni dal San Raffaele
Il cantante era ricoverato dal 22 marzo nel reparto solventi. Fedez oltre a salutare ha ribadito, come aveva già fatto nei giorni scorsi: “Sto bene”. Con lui c’era anche la moglie Chiara Ferragni, che gli è stata accanto per tutta la degenza. “Per me sarà tornare a vivere”, aveva detto parlando del suo ritorno a casa in una storia instagram poco tempo fa.
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Tumore neuroendocrino del pancreas: cosa aspetta ai pazienti
Li chiamano Net, tumori neuroendocrini. Sono una famiglia “molto eterogenea” di neoplasie rare “che solitamente restano nell’ombra”, e che oggi finiscono sotto i riflettori nel racconto di malattia che il rapper Fedez ha voluto condividere sui social. Una diagnosi, la sua, che accomuna un numero crescente di persone: “Negli ultimi anni stiamo rilevando più casi in tutte le fasce d’età e questo è probabilmente legato non a un reale aumento epidemiologico, ma alla capacità che abbiamo sviluppato di identificare queste malattie, con i progressi della tecnologia nella diagnostica e dell’utilizzo dell’endoscopia, da un lato, e grazie alle maggiori conoscenze che abbiamo ora all’interno della comunità medica, dall’altro. Quelle che un tempo erano identificate come lesioni o tumori generici ora si conoscono meglio e si ha la capacità maggiore di caratterizzarle e di sospettarne la natura”, spiega all’Adnkronos Salute il gastroenterologo Francesco Panzuto, ricercatore alla Sapienza università di Roma, Azienda ospedaliero universitaria Sant’Andrea – Centro di eccellenza Enets.
L’esperto parla delle forme che colpiscono l’apparato digerente e spiega che questo aumento delle diagnosi “può apparire ancora più accentuato nelle fasce più giovani”. E il caso Fedez insegna. “Perché è ovvio – sottolinea Panzuto – che i giovani si sottopongono a meno a test di screening e controlli diagnostici non avendo fattori di rischio particolari, quindi può capitare che si fanno esami per sintomi banali e talvolta emerge casualmente una lesione a pancreas, intestino o stomaco”. Ma il ritardo nella diagnosi resta. Viene calcolato in “molti mesi, se non anni. Ma sono dati che estraiamo da esperienze del passato, che hanno un valore relativo – rimarca lo specialista – Oggi questo gap si sta gradualmente compensando grazie all’incremento della conoscenza. Molti casi però continuano ad arrivarci già avanzati, quasi la metà sono quelli non operabili”, elemento importante ai fini della cura.
“Succede perché sono tumori che crescono lentamente – ricorda Panzuto – non danno grossi sintomi, non sono caratterizzati da una clinica evidente, a parte le forme che chiamiamo ‘funzionanti’, cioè che secernono sostanze che causano sindromi specifiche, ma questi sono il 20-30% del totale. Il 70-80% sono forme tumorali che non si accompagnano a sintomatologia specifica”.
L’incidenza complessiva “rientra ancora nell’ambito delle malattie rare: siamo sui 3-5 casi per 100mila abitanti – segnala l’esperto – considerando tutte le sedi del tumore neuroendocrino che può essere localizzato in tutti siti dell’apparato digerente dallo stomaco al retto, le più frequenti, dal piccolo intestino al pancreas” come nel caso di Fedez.
“Se ai fini della diagnosi precoce non c’è purtroppo un sintomo peculiare che ci aiuti”, ribadisce Panzuto, questi tumori crescono spesso nel silenzio. Va detto che, “se l’intervento è radicale e riesce ad asportare tutto il tumore, e se l’istologia del tumore asportato è biologicamente favorevole, ci sono ottime probabilità di cura. Naturalmente è necessario che il paziente si sottoponga per un periodo lungo a controlli di follow-up in un centro di riferimento, in modo che possa essere eventualmente diagnosticata immediatamente una recidiva. Molto, in ogni caso, dipende dall’esito dell’esame istologico perché ci dirà quali sono le caratteristiche del tumore e da tutto ciò deriva un profilo di rischio per il paziente che si potrà considerare definitivamente guarito, o ugualmente guarito, ma con un rischio più o meno quantificabile di avere una recidiva nel futuro”.
Un bivio cruciale è all’inizio della diagnosi, puntualizza lo specialista, “tra una malattia che si configura come ‘resecabile’ chirurgicamente”, eliminabile cioè in maniera radicale col bisturi, “oppure no. Nel primo caso, la chirurgia può essere definitivamente curativa, come anche l’asportazione endoscopica se le sedi del tumore lo consentono”. Nei casi di malattia avanzata o in presenza di recidiva, “ci sono diverse opzioni di terapie mediche farmacologiche sulle quali negli ultimi 10-15 anni si sono fatti significativi passi avanti”
La strada da percorrere resta comunque lunga. Per queste malattie “non esiste una forma di prevenzione possibile – precisa Panzuto – La rarità della malattia fa sì che non si conoscano adeguatamente i fattori di rischio reali. E non esistono attualmente neanche test di screening o marcatori tumorali specifici e utilizzabili nell’ottica di uno screening. Non abbiamo molto dalla nostra parte”. Accendere i riflettori su questi tumori è “molto importante”, assicura l’esperto.
Queste restano “malattie rare di difficile interpretazione, e da parte di molti quasi sconosciute. E ciò ha causato ritardo nella diagnosi e difficile accesso alle cure giuste da parte dei pazienti”. Puntare un faro su neoplasie come queste “è dunque un valore aggiunto. Esistono organizzazioni che lavorano costantemente per questo, come Itanet, Associazione italiana tumori neuroendocrini”, di cui Panzuto è segretario, “che raccoglie la maggior parte dei colleghi che si interessano ai tumori neuroendocrini. Al suo interno ci sono oncologi, endocrinologi, gastroenterologi, chirurghi, medici nucleari, patologi. Tutte quelle figure che sono necessarie per costituire un gruppo multidisciplinare”.
Anche sulla ricerca “certamente si può fare in più. Queste – conclude lo specialista – sono malattie che ereditano piccole quantità di finanziamenti. La ricerca è spesso ‘spontanea’, da parte dei gruppi che interagiscono tra loro e che hanno contatti anche con altri team internazionali e con la società europea Enets”, che si occupa anche di certificare i centri di eccellenza (in Italia ce ne sono 8)”. E’ un settore “che meriterebbe maggiore valorizzazione in termini di supporto all’attività di ricerca, proprio per colmare quei gap” che pesano sul futuro dei pazienti.