Editoria a pagamento: cosa state comprando?

di Chiara Lalli

Pubblicato il 2015-01-12

Che male c’è a pagare per pubblicare? E perché privare il mondo del vostro capolavoro inedito? Come e perché l’editoria a pagamento gode di ottima salute

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«Ribadiamo, in forma tutelativa del dr. Ivan Pozzoni, che ogni attività del suddetto è svolta a titolo gratuito, come avviene quando ci si trovi davanti ad operatori culturali di spessore. Cordiali saluti La redazione tutta». Cioè gli operatori culturali di spessore non si fanno pagare? E come pagano le bollette? Sono ricchi di famiglia?
 
VANITY PRESS
I danni che ha fatto la credenza che scrivere non sia un lavoro sono perniciosi e difficili da rimediare. Una tipografia si atteggia a grande editore, mecenate salvatore della Cultura, paladino dello spessore, l’urgenza espressiva e narrativa, il complotto del talento ignorato dal Sistema. Lo slogan potrebbe essere: «meno ti pagano, più vali» (quando eri studente «i soldi per pagare l’affitto te li manda[va] papà», e ora?). Martin Amis scriveva: «La pubblicazione «privata» non è propriamente criminalità organizzata, ma ha stretti legami con la prostituzione. La Tantalus Press era un bordello. […] Gli scrittori […] pagavano. Mentre uno scrittore dovrebbe poter dire a voce alta di non averlo mai fatto a pagamento – mai in tutta la sua vita» (L’informazione, Einaudi, 1996; The Information). Quanto alle rassicurazioni (di Balfour o di vostra nonna) «in principio persino James Joyce preferí pubblicare a proprie spese» oppure «Anche Proust, per inciso», per non parlare di Nabokov e «Philip Larkin. E naturalmente James Joyce», siamo nel terreno insidioso dei «anche Pirandello prendeva 4 al tema di italiano, anche per voi potrebbe esserci un futuro» o degli elenchi delle lettere di rifiuto da parte di editori a indiscussi Scrittori-di-Successo o Pulitzer («Richard si aspettava di scoprire un giorno che Shakespeare aveva sfondato grazie a un editore delle vanità» (vanity publisher)).
 
IL PRETESTO
A luglio 2104 ricevo una mail con la richiesta di pubblicare con un «contributo». A ottobre di nuovo. Non sono la sola, ovviamente. Scrivo un commento sull’aura ridicola dell’editoria equosolidale. Mi arriva poi una richiesta di chiarimenti da parte di deComporre. Quelli di Limina Mentis si storcono e ci tengono a chiarire.


 
I CHIARIMENTI SUI CHIARIMENTI
«Ciò lascia intendere che il dr. Pozzoni, studioso e ricercatore da tutti conosciuto, di spessore culturale internazionale, abbia formulato richieste editoriali fuori dall’autorizzazione della casa editrice deComporre. Quando, semplicemente, il dr. Pozzoni si è limitato a trasferirsi, andando a migliorare, da una casa editrice (deComporre) ad un’altra casa editrice maggiore (Limina mentis). Gradiremmo tutti una cortese modifica del sottotitolo, onde non lasciare sgradevoli sottointesi. Gradiremmo, inoltre, avere nomi e cognomi di chi ha rilasciato la dichiarazione in deComporre, come da corretta deontologia, onde metterci in contatto con i responsabili deComporre e chiarire i fatti. Fare giornalismo è responsabilità.» Chiaro? Stanno in fissa con lo spessore e vabbè. È divertente chiedere precisazioni quando non si capisce nemmeno l’italiano. Non si vuole lasciar intendere che Pozzoni abbia «formulato richieste editoriali fuori dall’autorizzazione della casa editrice deComporre», ma che la collaborazione è finita (quanto alla distrazione passata di deComporre riguardo alle missive di Pozzoni lasciamo a ognuno la propria idea). E ancora: «Buona sera, sono l’editore di Limina mentis, la nostra redazione è autorizzata a sponsorizzare le iniziative culturali del dr. Pozzoni, non riteniamo corretta una ridicolizzazione né della nostra attività, assolutamente lecita e seguita da molti autori, né dei nostri collaboratori. Ho ritenuto corretto il mio intervento in quanto vi è libertà di espressione, ma considero poco maturo un’esposizione di fatti non corretti o non prese di responsabilità su ciò che si dice. Prima chiedere o informarsi. Cordialmente.». Nel primo pezzo Mariano Mariani commentava: «Perché, che male c’è nell’attività di tali case editrici? Chiunque, aldilà d’essere un freelance da trenta denari, abbia un minimo di spessore culturale è in grado di comprendere che ogni microeditore ha la necessità di chiedere un auto-finanziamento, onde non fallire. I grandi editori chiedono cifre maggiori: deprecabile la disinformazione dell’autrice del grande articolo. Indaghi sui contratti a 0000 delle case editrici maggiori (non a vantaggio degli esordienti)».
Snoopy No grazie
CHE MALE C’È?
In questo caso lo «spessore culturale» ci dovrebbe spingere a capire che i microeditori devono chiedere soldi ai microautori – per non fallire. E non fallire non è mica qualcosa che riguarda solo il microeditore, ma l’Umanità intera, la Cultura, il Futuro dei vostri figli. Se il microeditore fallisce siamo tutti colpevoli, tutti responsabili. Ma io che ne posso capire, sono una freelance da «trenta denari» (manco mia nonna parlava così). I grandi editori chiederebbero cifre maggiori. Chi sono? Quanto? Abbiamo prove? Ma poi mi rimane l’atroce dubbio: chiedono cifre maggiori dei microeditori o fanno contratti a 0000? E cosa c’è che non va nella mission di Limina Mentis? «Limina Mentis editore, nata in Brianza nel 2007, è casa editrice culturale auto-finanziata, e sottostante all’ideologia editorale dell’equo-solidarietà. Più che il ricavo, alla Liminamentis editore interessa che l’iniziativa editoriale e culturale continui a sussistere nel tempo; dall’idea del commercio equo solidale, l’”editoria equo solidale” di Limina Mentis editore vorrebbe stampare solo ciò che vende, eventualmente ristampando, senza buttar via niente, senza sprecare cultura, con attenzione massima ai costi, lontano dall’etica dei ricavi, nel rispetto d’una stretta alleanza economico / creativa tra editore, curatori, e autori orientata a sfornar tesoretti da conservare nelle università, nelle librerie, nelle case, senza i fatui destini di maceri, magazzini e sottoscala librari. Limina Mentis editore rifiuta logiche di marketing “a base ricavo”, realizzando volumi sottocosto in modo da assicurare massima accessibilità economica e massima visibilità culturale (e concorsuale) a ricercatori, artisti, studiosi, coadiuvati, a volte, da ottimi docenti; secondo Limina Mentis editore è l’unione solidale tra editore, curatori ed autori a fare mercato, non il mercato a realizzare editore, curatori ed autori. Nell’auspicio di una sorta di dialettica collaborativa tra autori ed editore, fondata su un accordo di mutuo soccorso, Liminamentis editore si impegna, con un minimo aiuto economico dell’autore, a non ricavare, mettendo, senza lucrare e senza fallire, ciascun autore nelle condizioni di accedere a servizi tipografici e distributivi altrimenti irraggiungibili».
La missione di Limina Mentis
La missione di Limina Mentis

 
COME TRATTANO GLI SCRITTORI?
Il mese scorso Morgan Palmas ha pubblicato una indagine sulle case editrici a pagamento (Case editrici a pagamento: un’indagine che rivela come trattano gli scrittori, Sul Romanzo, 20 dicembre 2014). Palmas comincia così: «Le case editrici a pagamento sono un tumore per gli scrittori, se parte di questi si salveranno, altri purtroppo incontreranno la morte interiore verso la scrittura. Vi sembra un paragone azzardato?» (se non avete pazienza di leggere tutto – ma dovreste – andate direttamente alle conclusioni). Ecco la domanda di partenza: «L’anno scorso […] mi sono chiesto: per quale ragione in Italia, nonostante la non poca informazione online, le case editrici a pagamento continuano a essere vive e vegete, e a essere presenti in numerosi eventi di editoria e letteratura?». […] «Ho aperto un mio vecchio file e ho tirato fuori uno dei miei orribili romanzetti giovanili. Non solo. Ho inserito nel romanzo una decina di incongruenze che mi sono appuntato, tre esempi: un’amputazione della gamba sinistra subita da un personaggio nella prima parte del testo, nella seconda parte la gamba amputata è la destra; un viaggio in auto da Venezia a Milano in un’ora e mezza; un iPhone in un ricordo dei primi anni Novanta. Impossibile non notare il “cambio” di gamba, ridicolo pensare di compiere quel viaggio in così poco tempo e il primo iPhone è datato 2007». Non leggono, prendono soldi, non distribuiscono, organizzano premi ad hoc. Un discorso a parte andrebbe fatto sull’AIE (Associazione Italiana Editori). Ho fatto qualche domanda a Palmas.
 
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«UN CAPOLAVORO NON PUÒ ATTENDERE»
Quanti soldi girano intorno all’editoria a pagamento?
L’Associazione Italiana Editori ha dichiarato di recente che «la filiera editoriale nel 2013 ha sviluppato un fatturato di 2.660 miliardi di euro». Gli editori sono 4.534. Quanti sono a pagamento e qual è la quota di mercato relativa? Impossibile rispondere con precisione perché manca un registro dettagliato sulle modalità operative degli editori, dal quale eventualmente dedurre ciò che ci interessa. Indubbio che la crisi abbia acuito la sofferenza in termini di liquidità mensile ed è, perciò, verosimile pensare che non pochi attori del mercato si siano convertiti verso le forme dell’editoria a pagamento. Posso citare un fatto accaduto nel 2010, quando iniziai a contattare molti editori con metodo: avevo bisogno di allargare i confini della mia agenzia letteraria e reperire il maggior numero di informazioni utili. Inviai tantissime mail e numerose furono le telefonate durante le quali ebbi modo di confrontarmi con editor e redattori. La mia sensazione di allora, oggi non cambiata, è che non meno della metà degli editori italiani sia a pagamento (o che contemplino almeno una parte del business con il contributo dell’autore), anche nomi insospettabili, stimati ben al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori. Sì, una sensazione, non un dato, e forse sono stato prudente nelle proporzioni.
Quali sono i motivi che spingono X a pagare per pubblicare, soprattutto ora che è tanto facile autopubblicarsi?
L’editore, a differenza dei siti che offrono la possibilità di autopubblicarsi, gode ancora di un’aureola di purezza culturale. Non è una battuta. Parlo ogni giorno con autori, ascolto le loro storie e quelle confidate da loro conoscenti, è proprio così: l’idea di camminare tronfi sapendo di poter vantare la pubblicazione d’un libro rappresenta un godimento che i più non considerano per i rischi, le conseguenze o le spese. Viene in mente Céline quando scriveva: «Ma scrivere! Comunicare la tua febbre, la tua fifa, la tua fame, il tuo amore, la tua rabbia… Ma alt! Prima bisogna sentirle queste cose, poi trovarsi, capirsi, lavorare su se stessi. Roba lunga. Non paga». Gli scrittori di oggi hanno fretta, sono impazienti, un capolavoro non può attendere.
C’è anche una diversa autopercezione? Cioè se mi autopubblico non vale se lo fa un editore (pur pagandolo) allora sono uno Scrittore Vero?
Un’associazione che ho visto di frequente: se c’è di mezzo un editore allora posso godere di una certa autorevolezza quando si parlerà del mio libro. Una posizione di ignoranza disarmante, lontana dalla minima consapevolezza di come le leggi dell’editoria e dei consumi editoriali siano diverse da una facile, per quanto vanagloriosa, deduzione dotata di una logica erronea.
Cosa c’è di tanto meraviglioso nel sentirsi uno scrittore ed è un fenomeno recente o è una ambizione antica?
Per chi non è abbastanza disincantato, diventare scrittori significa allontanare quanto più possibile la condizione dei contadini di Fontamara. Non vorrei entrare su questioni dal taglio politico, mi si permetta di fermarmi alla prima osteria, ciononostante abbiamo subito per due decenni l’ostentazione del successo come chiave di conquista per la felicità, come un mantra dal degenerato sapore weberiano, per il quale lo spirito del capitalismo deve eludere il fascino dell’etica protestante, concentrandosi esclusivamente sul denaro e sulla sua moltiplicazione. Non poteva rimanere esclusa l’arte della scrittura, con la sua sfilata di scrittori in televisione (non possono dire lo stesso i pittori o i decoratori), si unisce così l’utile e il dilettevole: si fanno soldi e si diventa famosi. La presunzione non è contemporanea, semmai i nostri tempi hanno complicato lo scenario, includendo nell’immaginario collettivo una facilità di successo, una strada più comoda per generare moneta e un tocco di orgoglio che porta a un sorriso compiaciuto.
Oltre alla componente “narcisistica” ce n’è anche una contro la casta e il Sistema che ostacolano il tuo talento, cioè: se il mondo fosse giusto tu staresti al posto di Fabio Volo, che non merita niente – e comunque meno di te?
Sì, vero. Un classico verrebbe da dire. Faccio notare un aspetto. L’étoile dell’Opéra di Parigi ha un talento indiscusso perché per essere dove si trova sono stati necessari anni e anni di sacrifici nella danza. Per la categoria scrittori, anche se si pubblica con le migliori case editrici, esistono operazioni commerciali che non definiscono uno scrittore un’étoile, ma il successo è sancito dal numero di copie vendute, che nulla c’entra con la qualità. Sto affermando che il successo non va mai a braccetto con la qualità? No, sto dichiarando che un successo editoriale potrebbe o non potrebbe dipendere dalla qualità del libro. Perciò Fabio Volo va rispettato per il successo commerciale, se invece parliamo di qualità letteraria, non credo di dover dichiarare che si può essere più ambiziosi. Se un giorno vedrò Fabio Volo pubblicato con Adelphi, inizierò a preoccuparmi, Mondadori ha sempre puntato sui best-seller, dovremmo stupirci di questo? Arnoldo aveva nella sua idea di business quello che oggi possiede Marina Berlusconi, una continuità: cataloghi di libri molto venduti. Perché ‒ il lettore si chiederà ‒ gli altri editori sono diversi? Tutti mirano ai milioni di copie vendute, il punto è il come ci si può arrivare, su questo gli editori sono differenti fra loro. Gran parte degli scrittori dovrebbe finalmente comprendere che i libri non si vendono come le cassette di pomodori, nonostante ci sia chi utilizza la stessa tecnica per produrre fatturati nell’editoria. Giusto o sbagliato? Né giusto né sbagliato, scelte.
Quanti ti hanno detto – sapendo che fai anche l’agente letterario – di avere un romanzo nel cassetto?
Tanti, troppi. A volte si creano situazioni di disagio, a volte sono stato costretto a chiudere amicizie perché i confini avevano portato a tensioni, a volte mi pento pochi secondi dopo una mia generosa apertura verso qualcuno di questi. Fa parte del gioco. La mia compagna è un medico, lei lavora all’ospedale e fuori dall’ospedale, nel senso che ci sono sempre persone che dopo avere saputo del suo lavoro non perdono mai occasione di chiederle se la pressione minima a 90 va bene, se il colesterolo a 210 è pericoloso o se il gonfiore dei linfonodi fa pensare a un linfoma. Nel tempo si accumulano esperienze che permettono di filtrare con maggior lungimiranza, certo, la perfezione non esiste, basta diventare più fluidi e meno rigidi per sopravvivere.
Come hai dimostrato mandando il tuo romanzo con varie incongruenze, questi editori prezzolati manco leggono, figuriamoci se editano e allora mi viene da chiederti: se togli editing, distribuzione e ufficio stampa, cosa rimane di un editore?!
Gli editori a pagamento dovrebbero (ri)leggere l’evergreen Avere o essere? di Erich Fromm, speriamo che serva. Qualcuno storcerà il naso, penso che non pochi editori siano fantastici fabbricatori di sogni e, in alcuni casi, lo fanno benissimo.
Quanto costa pubblicare (costi vivi, quante tipologie) diciamo un libro medio?
Ci sono i costi redazionali (per esempio il costo dell’autore pagato a stralcio), i costi di stampa, i costi delle indagini di mercato e della pubblicità, i costi commerciali come gli extrasconti, i costi di distribuzione (dai trasporti alle rese, ecc.), le spese generali e gli oneri finanziari. I costi fissi e variabili possono avere specifiche diversità a seconda dell’editore. Complichiamo il quadro per intuire come la questione non possa produrre una risposta univoca. Quante pagine il libro? Un 14×21 di formato o altro? Ci sono illustrazioni? Che tipo di carta? L’autore ha già pubblicato e, se sì, quali previsioni di vendita si possono fare? Soltanto alcune domande, ce ne sarebbero altre, che impongono purtroppo a rispondere senza una risposta definitiva.
Press
CONCLUSIONI
In un contesto in cui autopubblicarsi è molto facile e il narcisismo può essere così soddisfatto è davvero difficile capire il motivo per cui sarebbe necessario finanziare l’attività di qualcun altro senza averne in cambio (quasi) niente. Tutto quello che è pubblicato da un editore vero è bello? No, ovviamente. Ci sono moltissime scemenze in circolazione e i libri non sono sacri (li si può riciclare, buttare, abbandonare in una cabina telefonica). Alla fine è carta e inchiostro o Kindle. Tutto quello che si pubblica pagando fa schifo? Nemmeno, non intrinsecamente. Ma non è sicuramente l’unica e ultima speranza per l’Umanità (quando abbiamo perso il senso del ridicolo? Lo abbiamo mai avuto in dotazione?). Da Umberto Eco che spiega perché non legge i manoscritti qualcosa di utile si può riciclare.
Ognuno fa quello che vuole (la «libertà di espressione» che viene richiamata con enfasi da Lorena Panzeri di Limina Mentis, e da moltissimi altri a sproposito, come se qualcuno avesse voluto impedirle di commentare non è in pericolo, RIPETO: non è in pericolo). Personalmente preferirei dare 30 euro a uno che mi dice «non ho voglia di lavorare» piuttosto che a uno che mi dice «dammi 30 euro e salverò il mondo». Ognuno deve pagare le bollette o il mutuo e trova il modo di farlo entro i limiti legali. Sarebbe meno ridicolo evitare di presentare la propria sopravvivenza come un sacrificio in nome della Cultura e dello spazio mancante per i veri narratori di spessore (quelli scartati dagli editori che non chiedono soldi). La lagna universale mischiata al complottismo produce effetti sorprendenti.
 
QUALCHE LINK
A pagamento, Yog’s Law and Self-Publishing, Self-Publishing vs. editoria a pagamento. La non-innocente confusione, “Editoria” a pagamento, Piccoli editori capestro crescono.
Editoria a pagamento
(Vanity Press).

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