Opinioni

Gli iscritti alla Triplice in caduta libera

di Erennio Ponzio

Pubblicato il 2018-09-05

Tempi bui per la Triplice sindacale, che in soli due anni – tra il 2015 e il 2017 – ha perso complessivamente circa 450mila iscritti (più della metà, 293mila, nel Mezzogiorno). Se la Cgil registra un calo di ben 285mila iscritti e la Cisl di 188mila, la Uil, in controtendenza, segna 26mila iscritti in più. […]

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Tempi bui per la Triplice sindacale, che in soli due anni – tra il 2015 e il 2017 – ha perso complessivamente circa 450mila iscritti (più della metà, 293mila, nel Mezzogiorno). Se la Cgil registra un calo di ben 285mila iscritti e la Cisl di 188mila, la Uil, in controtendenza, segna 26mila iscritti in più. Cala anche il numero di coloro che hanno svolto attività a titolo gratuito a favore di un’organizzazione sindacale. I dati emergono dall’Indice di appeal sindacale (Ias) ideato dall’Istituto Demoskopika. Alle origini del crollo della fiducia, che si concretizza nel mancato rinnovo della tessera, non c’è soltanto la crisi della rappresentanza, che investe anche i partiti e i principali organismi di mediazione, e più in generale la polverizzazione delle strutture tradizionali del lavoro, con la contemporanea riduzione del numero dei lavoratori a tempo indeterminato. Più in profondità c’è l’annoso tema dell’effettività della funzione e della rappresentanza del sindacato in Italia.
A questo proposito, le rinvigorite crociate contro i sindacati si muovono su più livelli.

Il primo, politico e fortemente stroncatore soprattutto per la Triplice, è quello che mette sotto processo il sindacato per aver distorto e tradito la funzione originaria autonoma, diventando di fatto la “cinghia di trasmissione” dei partiti. In questo ambito rientrano le accuse di essersi trasformato in un luogo di grandi privilegi (come la famosa legge 564, che permette ai sindacalisti di acquisire una sorta di vitalizio anche con un solo mese di contributi, oggetto ad esempio di tante inchieste degli inviati delle “Iene” tra gli oltre 17mila sindacalisti che ne hanno usufruito) e in palestra di apprendistato per funzioni apicali nell’amministrazione pubblica (nel Lazio, ad esempio, è quasi una regola). Il secondo livello, che fa propria una polemica di vecchia data, parte dal fatto che i quattro articoli della Costituzione riguardanti natura e funzioni del sindacato, cioè il 39, il 40, il 46 e il 99, a distanza di oltre settant’anni restano ancora in gran parte inattuati e disattesi, o perlomeno esposti a spine nel fianco. I vuoti lasciati dal legislatore sono stati in parte colmati dalla giurisprudenza di merito, di legittimità e soprattutto costituzionale.

landini crozza camusso sindacati

Ad esempio, l’articolo 39, dopo aver assicurato che “l’organizzazione sindacale è libera”, precisa che “ai sindacati non può essere imposto altro vincolo se non la loro registrazione presso gli uffici locali o centrali, secondo le norme di legge” e impone “la democraticità degli statuti”. Il problema è che in ben sette decenni sono mancate leggi attuative. Principalmente perché la registrazione è stata a lungo vista come un mezzo di intromissione dello Stato e di controllo degli iscritti. Nonché di limitazione della libertà sostenuta proprio dall’articolo 39. Inoltre i sindacati hanno a lungo osteggiato la rappresentanza proporzionale al numero di iscritti. Tutto ciò ha garantito al sindacato – quale “associazione non riconosciuta” – la mancata trasparenza e pubblicità dei bilanci economici (sono caduti nel vuoto, com’era prevedibile, i richiami di Landini alla “casa di vetro”). Inoltre ha aperto la questione della rappresentanza e gli ha assicurato crescente importanza attraverso lo strumento della contrattazione collettiva, cioè dalla contrapposta attività attraverso cui le parti sociali – lavoratori e datori di lavoro – determinano le condizioni di lavoro (strumento che ha trovato ulteriore forza con la legge Vigorelli del 1959).

La mancanza di regole ha alimentato un altro fenomeno: la proliferazione di piccoli movimenti sindacali quasi sempre sprovvisti di idonea rappresentanza. Ciò non solo ha danneggiato la Triplice, ad esempio duplicando con la sede separata i contratti firmati dai sindacati confederali, ma anche le organizzazioni autonome realmente rappresentative, che a loro volta hanno spesso scalfito quote di iscritti a Cgil, Cisl e Uil. I numeri amari per la Triplice, quindi, vanno necessariamente collegati al nodo della rappresentanza reale del sindacato, che va dettagliata non tanto a livello di consistenza numerica, peraltro di difficile verifica, ma piuttosto attraverso un complesso di elementi concretamente misurabili, richiamati anche dalla Corte Costituzionale (ad esempio con la sentenza 30 del 26 gennaio 1990), seppur con qualche elemento di incertezza: basilare la significativa copertura territoriale sul piano nazionale, cioè struttura e ramificazione degli uffici lungo tutto lo Stivale, con indicazione dei funzionari responsabili, degli eventuali collaboratori, degli orari d’apertura o dei canoni di locazione, realtà facilmente verificabile dai funzionari dell’Ispettorato del lavoro e dell’Agenzia delle entrate.

Su questo punto la Corte non ha specificato quale sia la presenza di sedi da considerarsi minima, ma una legge potrebbe, ad esempio, indicare almeno i due terzi delle regioni italiane. Parallelamente si possono accertare le attività svolte a favore degli associati. Il ministero è in grado e deve misurare il livello di rappresentatività, ha gli strumenti idonei per valutare se un’associazione è grande e strutturata oppure no, al di là del numero di iscritti che vanta. Per sintetizzare, se i più grandi hanno perpetuato di poter fare per anni il proprio comodo, hanno finito per rendere l’intero settore una sorta di anarchia, dove anche i più piccoli ne hanno approfittato.

Regole certe e indici oggettivi aiuterebbero a superare anche l’infelice formula, partorita dal legislatore sin dagli anni Novanta, del sindacato “comparativamente più rappresentativo”, nata tra l’altro con obiettivi differenti – cioè l’eventuale compresenza di più contratti collettivi – rispetto a quelli perseguiti dal criterio della maggiore rappresentatività e quindi della legittimazione soggettiva delle diverse associazioni sindacali. Insomma, il sindacalismo italiano sta pagando il conto di una lunga epoca caratterizzata da un’attività regolata da norme molto sfumate, per usare un eufemismo, contraddistinta da posizioni di crescente potere di cui hanno beneficiato principalmente i dirigenti degli stessi sindacati rispetto ai lavoratori rappresentati, nonché di palesi connivenze con i Palazzi anche attraverso accessi privilegiati nelle liste elettorali ad ogni livello di amministrazione. S’è preferito non invertire la marcia, trascurando l’annosa richiesta di regole certe, di bilance per pesare realmente le singole organizzazioni sindacali (numeri mai verificati) e di certificazioni.

I sindacati sembrano sempre più “società di servizio”, impegnati più a seguire un utente nel rapporto con l’Inps o nel calcolare l’Isee che non a difendere i lavoratori. Per chiudere, un accenno all’articolo 99 della Costituzione, che ha previsto la partenza del Cnel, organo ausiliario dello Stato, di consulenza delle Camere e del governo in materia di legislazione economica e sociale, composto di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, compresi i sindacati. Pur essendo l’unica norma costituzionale attuata – dal 1957 – tra quelle che interessano il mondo sindacale, non mancano controversie sulle modalità di rinnovo dei suoi componenti, in cui rientra in ballo il tema della rappresentatività. Fatto sta che tale ambiguità può concorrere all’avvilente etichetta che ne fa il prototipo degli enti poco valorizzati (altro eufemismo), tanto che solo la bocciatura della riforma costituzionale con il referendum del 4 dicembre 2016 lo ha salvato da un impietoso decesso.

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