Coronavirus: i mille morti nelle RSA in Lombardia

di Alessandro D'Amato

Pubblicato il 2020-04-08

Nelle strutture lombarde che hanno risposto all’Iss, 164 su 708, le morti sono 934 da febbraio, il 6,8% degli ospiti. Una strage di anziani che si poteva già comprendere dai racconti degli operatori sanitari che hanno visto morire un terzo degli ospiti. E intanto non si fanno i tamponi

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Quasi mille persone, ovvero il 7% del totale degli ospiti delle case di riposo e delle residenze per anziani, sono morti in Lombardia. È il calcolo dell’Istituto Superiore di Sanità sulle RSA dopo la delibera della Regione Lombardia che ha portato i malati di COVID-19 nelle strutture in quello che è configurabile come un business. Nelle strutture lombarde che hanno risposto all’Iss, 164 su 708, le morti sono 934 da febbraio, il 6,8% degli ospiti. La media nazionale è del 3,1%.

Coronavirus: i mille morti nelle RSA in Lombardia

Una strage di anziani che si poteva già comprendere dai racconti degli operatori sanitari che hanno visto morire un terzo degli ospiti in alcune delle situazioni più tragiche. E che fa ricordare  la delibera della giunta – la numero XI/2906, 8 marzo 2020 – che chiedeva alle Ats, le aziende territoriali della sanità, di individuare nelle case di riposo dedicate agli anziani strutture autonome per assistere pazienti COVID-19 a bassa intensità. Ma anche l’invito a riaprire le RSA da parte di Regione Lombardia. Per questo, spiega oggi Repubblica, si è mosso l’ISS:

Quando l’Istituto si è reso conto che qualcosa non andava ha avviato il suo studio, basato su un questionario inviato a tutte le residenze inserite nel suo archivio (circa 2.500). Si è appena conclusa la seconda puntata di questo lavoro e le strutture che hanno risposto sono passate da 250 a 570. Si chiede, tra l’altro, quanti anziani sono morti dopo la diagnosi di Covid-19 e quanti con sintomi influenzali, proprio perché si pensa che probabilmente c’è una sottostima dei decessi legati alla pandemia. Ebbene, nelle strutture Lombarde monitorate, 164 su un totale di 708, queste morti sono state 934 a partire da febbraio, cioè il 6,8% del totale degli ospiti. La media nazionale è del 3,1%, ed è ovviamente trainata dalla stessa Lombardia. Toscana ed Emilia, che si dividono il secondo posto in classifica si fermano intorno al 3%.

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La delibera della Regione Lombardia

Se si proiettassero le percentuali sul totale degli ospiti di Rsa, si otterrebbe un numero di morti legate al coronavirus altissimo: 12mila, delle quali almeno 3mila nella sola Lombardia. L’Istituto ha anche chiesto quali sono stati i problemi principali in questo periodo e in quasi il 90% dei casi si cita la carenza di dispositivi di protezione individuale. Ovvero mascherine e guanti, la cui assenza era stata denunciata per tempo da Bergamaschini:

Il professor Luigi Bergamaschini, geriatra fra i più qualificati di Milano, ha subìto il 3 marzo un provvedimento di esonero perché colpevole di autorizzare l’uso delle mascherine chirurgiche al personale alle sue dipendenze. Il giorno stesso del suo allontanamento forzato è stato fatto esplicito divieto a medici e paramedici di indossarle. Le ripetute diffide sindacali che parlano apertamente di “gestione sconsiderata dell’emergenza” hanno indotto la Procura di Milano ad aprire un’inchiesta “Modello 44” a carico di ignoti.

Ma il delegato Cgil della Rsu, Pietro La Grassa, non esita a indicare il nome e il cognome del direttore generale del Pat, Giuseppe Calicchio, prescelto dalla Regione Lombardia, in carica dal primo gennaio 2019. “Il filosofo”, lo chiama, perché in effetti quello è l’unico titolo universitario che Calicchio indica nel curriculum. Di lui è noto semmai il legame con l’assessore regionale alle Politiche sociali, Stefano Bolognini, cerchia ristretta di Salvini, al cui fianco Bolognini si trovava anche l’estate scorsa al Papeete di Milano Marittima.

Gianni Rezza, responsabile delle Malattie infettive all’Istituto superiore di sanità ammette: «Abbiamo indubbiamente una sottostima del numero di decessi nelle Rsa, è inutile negarlo». Il motivo è che si sono fatti pochi tamponi. «E come sappiamo le morti vengono attribuite al coronavirus solo se c’è un test positivo. Purtroppo si sono avuti dei cluster nelle Rsa quindi in questo momento va prestata moltissima attenzione. Queste strutture, con il personale che entra per lavorare e poi esce, possono fare da amplificatore all’epidemia». Per Walter Ricciardi, consigliere del ministero alla Salute per l’emergenza, «fortunatamente la stragrande maggioranza degli anziani in Italia sta a casa loro. Del resto quando un virus come questo entra nelle Rsa fa una strage».

Il caso del Pio Albergo Trivulzio e i tamponi che non vengono fatti

Ieri intanto il Pio Albergo Trivulzio ha tirato fuori i dati ufficiali di aprile: «Dal primo al 7 aprile sono deceduti 27 ospiti che presumibilmente avevano contratto il Covid-19 — fanno sapere — Nella prima settimana del mese al Pat le morti sono state complessivamente 37, di cui 10 a causa di patologie terminali non riconducibili al virus. I 27 pazienti deceduti nel mese di aprile per una polmonite avevano quasi sicuramente contratto il Covid», spiega Rossella Velleca, infettivologa della struttura. La Regione Lombardia ha annunciato una commissione d’inchiesta. Che, racconta Repubblica, dovrà indagare anche sui test del tampone che non vengono fatti agli ospiti delle strutture:

Giorgia Memo, insegnante, quasi trema mentre racconta della madre Fernanda, 88 anni, ricoverata da cinque al “Fornari” del Pio Albergo Trivulzio, reparto Alzheimer, retta tra i 2.500 e i 3 mila euro al mese. Su 25 letti ieri ce n’erano 17 occupati da persone con febbre. Ogni giorno l’ansia, le consultazioni fra le famiglie in chat, dove corrono i racconti, i timori, le cattive notizie. Chi si ammala e chi muore. «Chiamo tutti i giorni per avere notizie — continua Giorgia — Ci dicono la temperatura, i risultati delle lastre, gli esami. Ma ancora niente tampone. Gli operatori fanno tripli turni, cercano di salvare il salvabile. Finirà che metà dei nostri cari se ne andrà.

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Ci sono decine di malati in tutti i reparti: febbri, polmoniti, tutti in osservazione, alcuni in isolamento. Ma non c’è trasparenza». I parenti dei lungodegenti si conoscono tutti, molti entravano quotidianamente. Oggi che le porte sono sbarrate si tengono in contatto, si scambiano quei frammenti di informazioni che riescono a strappare dalle infermiere amiche. C’è chi ha già mandato la documentazione in procura, come Gianfranco Privitera, 72 anni, che da giorni tempesta di raccomandate i vertici del Trivulzio. «Mia mamma si chiama Ersilia e ha 94 anni. L’hanno messa in stanza con una signora con la febbre. Dicono che non le fanno il tampone perché non lo fanno a nessuno. Lei è terrorizzata, ma capisce. Vede morire uno alla volta i vicini di stanza».

Chissà se qualcuno prima o poi si prenderà la responsabilità di quello che è accaduto. E sta ancora accadendo.

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