Quella strana coincidenza tra referendum sul Jobs Act ed elezioni politiche

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2016-12-14

Ieri Paolo Gentiloni ha ottenuto la fiducia al Senato, oggi il ministro del lavoro Giuliano Poletti fissa la data delle elezioni politiche per “evitare” il referendum sul Jobs Act che reintrodurrebbe l’articolo 18. Quando si dice essere orgogliosi del proprio lavoro, eh?

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Non ci sono solo le elezioni politiche all’orizzonte nel 2017, ci sono anche tre referendum: quelli sul Jobs Act promossi dalla CGIL. Il nove dicembre infatti l’Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione ha certificato «il superamento per tutte e tre le iniziative referendarie delle 500 mila sottoscrizioni valide». È stato quindi superato il primo scoglio (dopo la raccolta firme) che si parava dinnanzi ai promotori del referendum abrogativo su “articolo 18, voucher e appalti”.
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Perché se si va alle politiche il referendum della CGIL slitta di un anno

La CGIL infatti aveva raccolto oltre un milione di firme per ciascuno dei tre quesiti referendari, ovvero: la cancellazione del lavoro accessorio (quello pagato tramite i voucher); la reintroduzione della piena responsabilità solidale in tema di appalti e la nuova tutela reintegratoria nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo per tutte le aziende al disopra dei cinque dipendenti (ovvero l’articolo 18 abolito da Renzi con la riforma del mercato del lavoro). La prossima tappa è il pronunciamento della Corte Costituzionale che il 10 gennaio dovrà esprimersi sull’ammissibilità dei quesiti referendari. Nessuno dubita però sul fatto che anche la Consulta darà il via libera e che quindi ancora una volta gli elettori saranno chiamati alle urne. In mezzo però c’è l’incognita riguardante le elezioni politiche: sappiamo che il Parlamento prima di legiferare sulla nuova legge elettorale aspetterà la sentenza della Consulta sull’Italicum – la legge elettorale voluta da Renzi per eleggere i deputati dopo la riforma costituzionale sulla quale pesano diversi dubbi di incostituzionalità – ma Gentiloni non ha indicato una data di scadenza del suo mandato o un orizzonte temporale entro il quale si andrà al voto per rinnovare il Parlamento. In che modo le due consultazioni influiscono l’una sull’altra? La legge attualmente in vigore (nr. 352 del 1970) in materia referendaria stabilisce che i referendum abrogativi vengano celebrati di domenica in una data compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno. La stessa legge, promulgata in occasione del referendum sul divorzio, prevede anche che nel caso di anticipato scioglimento delle Camere o di una di esse «il referendum già indetto si intende automaticamente sospeso all’atto della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto del Presidente della Repubblica di indizione dei comizi elettorali per la elezione delle nuove Camere o di una di esse. I termini del procedimento per il referendum riprendono a decorrere a datare dal 365° giorno successivo alla data della elezione». Questo significa che qualora venissero indette elezioni anticipate, magari per gli inizi di giugno come pare sia l’intenzione di Renzi, il referendum sul Jobs Act slitterebbe di un anno, ma si farebbe lo stesso in ogni caso.

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Il M5S Toninelli vuole andare al voto subito per cambiare il Jobs Act una volta al governo

Poletti ha deciso la data delle elezioni

Al di là della data delle elezioni politiche la sentenza della Consulta sull’ammissibilità del referendum sul Jobs Act aprirebbe scenari preoccupanti per il Partito Democratico (che quella riforma l’ha votata) e soprattutto per Matteo Renzi (che l’ha fortemente voluta). Posto che il nuovo referendum essendo abrogativo dovrebbe superare il quorum se si ricomponesse il fronte del No alla riforma costituzionale e i numeri dei votanti rimanessero gli stessi del referendum costituzionale allora le opposizioni avrebbero un’ulteriore occasione per dare la spallata definitiva a Renzi, che vedrebbe così seriamente compromesse – dopo la bocciatura di una delle sue riforme più importanti – la possibilità di tornare a Palazzo Chigi. Le alternative per disinnescare il referendum a questo punto sono due: votare il più rapidamente possibile la legge elettorale e andare al voto in primavera oppure modificare il Jobs Act. Non sarà sufficiente modificare di qualche virgola il Jobs Act, perché da qualche anno la Corte Costituzionale ha stabilito che le modifiche alla legge oggetto di referendum abrogativo debbano soddisfare le richieste dei promotori del referendum. È già stato fatto anche quest’anno in occasione del “referendum sulle trivelle” quando Renzi fece approvare delle modifiche alla legge che disinnescarono cinque dei sei quesiti referendari. Ma per il Job Act, vera colonna portante dell’azione di governo renziana le cose sarebbero diverse: intervenire sull’articolo 18 significherebbe sconfessare uno dei cardini della legge. Si tratterebbe quindi di una vera e propria marcia indietro, che dovrebbe essere operata da un Parlamento che ha votato la legge e da un Governo che ha come Ministro del Lavoro lo stesso ministro del Governo Renzi: Giuliano Poletti. Ed è proprio Poletti a sostenere la linea dell’andare alle urne per le elezioni politiche proprio per evitare di andare al voto sull’articolo 18, che tra i tre quesiti è quello con una maggiore valenza politica. Poletti infatti ha dichiarato all’ANSA che «se si vota prima del referendum il problema non si pone. Ed è questo, con un governo che fa la legge elettorale e poi lascia il campo, lo scenario più probabile. Sulla data dell’esame della Consulta è tutto come previsto». Questo naturalmente presuppone che Poletti abbia i poteri di far approvare la legge elettorale (che Mattarella ha auspicato emerga dai lavori parlamentari e non su input del Governo) e sopratutto di sciogliere le Camere (cosa che il Capo dello Stato non sembra attualmente disposto a fare). Dalla minoranza Dem Roberto Speranza bacchetta Poletti ricordando che “più che invocare le urne per evitare il referendum si lavori subito per modificare il jobs act” mentre dalle opposizioni si fa ironia sul fatto che Poletti e il Partito Democratico abbiano paura del responso delle urne sul Jobs Act: “siccome incombe il referendum sul Job act, che promana dal suo dicastero, sono terrorizzati. E anziché annunciare che l’esecutivo andrà alla sfida referendaria per convincere gli italiani, il furbetto dice che il governo punterà sulle elezioni anticipate per evitare il verdetto degli elettori sul tema. Roba da pazzi. Mattarella può ricordargli le regole del gioco? Al voto anticipato si deve andare perché sono già minoranza nel paese, non perché incombe un altro referendum” ha scritto Francesco Storace su Facebook mentre per Deborah Bergamini di Forza Italia “le parole di Poletti sulla necessità di votare alle politiche prima del referendum sul Jobs Act sono un chiaro segnale di paura dopo la sonora sconfitta del 4 dicembre sulla riforma costituzionale“. Più cauta il Segretario Generale della CGIL Susanna Camusso che, ricordando che vale il merito dei quesiti referendari e non la data della consultazione, ritiene che il fatto che Poletti insista sullo slittamento (e non annullamento) del referendum significhi “non avere il coraggio di affrontare i problemi“. C’è però un ultima questione, siamo sicuri che andare alle urne per le politiche, senza aver modificato il Jobs Act sarebbe una mossa saggia per Renzi e Poletti? Guardando i flussi elettorali del referendum costituzionale non è possibile non notare un certo scontento per le politiche del lavoro di Renzi. Senza un’inversione di rotta per quanto riguarda le politiche del lavoro (soprattutto i voucher) andare a votare senza modificare il Jobs Act potrebbe sancire l’impossibilità di recuperare consensi su quel fronte.

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