Cultura e scienze
Cosa succede se un bambino chiede di morire
di Giovanni Drogo
Pubblicato il 2015-10-30
La storia di Julianna Snow, la bambina di cinque anni che ha chiesto l’eutanasia. Ci sono decisioni che nessuno vorrebbe doversi trovare a prendere, ci sono parole che nessuno genitore vorrebbe sentirsi dire dai propri figli. Ma non possiamo ignorarle
In Italia non c’è una legge sull’eutanasia. Anzi, in Italia di eutanasia e di fine vita non si parla sostanzialmente più: troppe resistenze, troppe le questioni all’ordine del giorno di un dibattito pubblico impegnato a discutere ben altri problemi. Men che meno si parla della possibilità di praticare l’eutanasia sui minori. La storia di Julianna Snow è quindi geograficamente e culturalmente molto distante da noi. Perché Julianna vive con la sua famiglia in Oregon, dove dal 1997 esiste una legge, il Death with Dignity Act, che consente ai malati che non vogliono più sopportare sofferenze spesso inutili di poter morire. Julianna Snow ha cinque anni, soffre di una rara neuropatia genetica chiamata malattia di Charcot-Marie-Tooth (CMT) e ha espresso il desiderio di morire.
«Mi sembra di non avere una vita»
Non è facile spiegare che cosa sia la CMT, Julianna la descrive così: non posso camminare ma non posso parlare. Nelle parole di sua mamma Michelle Moon, che è neurologa, Julianna soffre di una forma grave di CMT che assomiglia negli esiti all’atrofia muscolare spinale. La cosa davvero brutta è che per la forma di CMT di Julianna non esiste una cura, nella migliore delle ipotesi Julianna rimarrà così per sempre grazie al supporto del respiratore e di alcune terapie. Nella peggiore la sua malattia potrebbe peggiorare con l’andare del tempo. Se ci pensiamo però un “sempre” di questo tipo è notevolmente distante da una condizione di vita non solo ideale, ma anche semplicemente accettabile. Ad esempio Julianna, che ora è sostanzialmente paralizzata dalle spalle in giù, non riesce a deglutire autonomamente quindi la saliva deve essere aspirata meccanicamente. I dettagli sulle sofferenze di Julianna potrebbero essere elencati nel modo più minuzioso ed esaminati in ogni minimo particolare ma questa “lettura” non ci avvicinerebbe poi di molto alla realtà della vita di Julianna. In un post di luglio Michelle racconta di come, di fronte alla prospettiva di tornare di nuovo in ospedale alla prossima crisi, Julianna avrebbe detto di preferire di andare in Paradiso. E aspettare lì l’arrivo della sua famiglia. Il problema è abbastanza semplice nella sua ineluttabilità: Julianna potrebbe morire di polmonite anche per un semplice raffreddore.
Me: Julianna, if you get sick again, do you want to go to the hospital again or stay home?
J: not the hospital
M: Even if that means that you will go to heaven if you stay home?
J: Yes
M: And you know that mommy and daddy won’t come with you right away? You’ll go by yourself first.
J: Don’t worry. God will take care of me.
M: And if you go to the hospital, it may help you get better and let you come home again and spend more time with us. I need to make sure that you understand that. Hospital may let you have more time with mommy and daddy.
J: I understand.
M: (crying) – I’m sorry, Julianna. I know you don’t like it when I cry. It’s just that I will miss you so much.
J: That’s OK. God will take care of me. He’s in my heart.
La maggior parte di noi non ha – fortunatamente – dimestichezza con il dolore. Quasi nessuno ha così tanta familiarità con la sofferenza quanta ne ha Julianna, quindi possiamo ragionevolmente supporre che – come ogni persona – anche Julianna abbia un limite di sopportazione. Il punto è che Julianna è una bambina di cinque anni, e se per alcuni è accettabile l’idea che un adulto possa disporre autonomamente della propria esistenza l’idea che un bambino decida di morire e che qualcuno si debba fare carico di porre fine alla sua esistenza è un pensiero inaccettabile. Basti pensare a quello che si è detto o scritto riguardo la decisione del Belgio di consentire l’eutanasia anche ai bambini. Il fatto che sia un argomento del quale nessuno vorrebbe parlare e tanto meno si dovrebbe trovare a dover affrontare in prima persona non significa che il problema non esista e non vada affrontato. Se vogliamo parlare di crudeltà dobbiamo chiederci cosa sia più crudele: tenere in vita persone (i bambini sono persone) tra enormi sofferenze procrastinando l’inevitabile o porre fine in modo dignitoso e secondo la volontà del paziente ad un’esistenza tormentata. Non si tratta di decidere a priori che esistono vite che hanno “più senso” di altre. Si tratta di capire che il dolore non aggiunge senso ad un’esistenza. Nemmeno a quella dei bambini. Un’obiezione è che Julianna è troppo piccola per sapere cosa sia la vita e soprattutto per comprendere l’irreversibilità della morte. La realtà delle cose è che non esiste un’età alla quale si impara qual è il senso della vita, le sfide che ci vengono poste davanti ci fanno maturare o crescere più in fretta. Probabilmente Julianna si è posta domande riguardo l’esistenza che la maggior parte di noi affronta solo in età avanzata, magari di fronte alla morte di un genitore o di una persona cara, non per averle esperite in prima persona sulla sua propria pelle, nel suo stesso corpo. Riguardo invece la comprensione di cosa sia davvero la morte, di come sia un evento dal quale non si può tornare indietro si può dire solo che quasi nessun essere umano è in grado di capirla. Alcuni si sono inventati un mondo “oltre”, per cercare di non fissare lo sguardo sugli occhi della gorgone e non rimanerne impietriti, e sono decisamente in molti a credere a questa possibilità. A causa delle sue frequentazioni con gli ospedali e della sua situazione probabilmente Julianna ha una comprensione della precarietà e della fragilità dell’esistenza che molti non hanno. Riguardo a Julianna e altri bambini che sono in una situazione così drammatica non possiamo continuare ad evitare la domanda che la loro vita pone alla nostra e accettare che anche un bambino abbia la capacità di sentire quando – in mancanza di una prospettiva di guarigione – il dolore è troppo insopportabile.