Cultura e scienze
#facesofprostitution: l'orgoglio delle sex workers
di Giovanni Drogo
Pubblicato il 2015-04-03
Per alcune fortunate vendere il proprio corpo è una scelta libera e consapevole, ed è giusto che lo possano raccontare al mondo, così come è giusto raccontare le altre storie delle altre donne che si prostituiscono
Un hashtag si aggira per l’Internet, conquistando Twitter e Intagram: #facesofprostitution. Questa è la parola chiave scelta da alcune prostitute australiane per rispondere ad un articolo molto critico nei confronti delle donne che scelgono di fare “il lavoro più vecchio del mondo” che sostiene che “tutte le prostitute finiscono male”. Dal dibattito che ne è seguito apprendiamo che nei paesi dove la prostituzione è legale ci sono prostitute contente di esserlo. Quale delle due descrive la vera faccia del mercato del sesso a pagamento? Probabilmente nessuna ma ormai è troppo tardi e la battaglia è iniziata.
A causare la rivolta delle prostitute è stato un pezzo di Laila Mickelwait rilanciato (e ora cancellato) dal popolare sito australiano Mamamia. Nell’articolo, apparso sul sito di un’associazione cristiana americana che è impegnata a fermare lo sfruttamento sessuale delle donne, la Mickelwait inaugura una riflessione su come Pretty Woman (quest’anno il cast ha festeggiato il venticinquennale del film) possa aver indotto numerose donne ad imboccare la strada della prostituzione seguendo la promessa di un mondo dorato e dell’incontro con il principe azzurro e soprattutto del facile arricchimento. La realtà delle cose, ricorda l’autrice, però è decisamente peggiore poiché sono molte le prostitute che subiscono abusi e vengono sfruttate sessualmente. Al di là del banale accostamento tra la prostituta picchiata e la faccia sorridete di Julia Roberts nel discorso della Mickelwait non c’è niente di nuovo, quando si parla di prostituzione non è difficile trovare racconti (e foto) che ne descrivano gli aspetti più crudi e disperati. In Australia però dove la prostituzione è legale, le lavoratrici del sesso però non ci stanno ad essere dipinte come la donna dell’immagine a corredo dell’articolo. In fondo ne va del loro lavoro se i clienti pensano che siano tutte piene di lividi e sfruttate. Ecco quindi l’idea: mostrare la faccia sana della prostituzione legale. Ed inizia così la contrapposizione tra chi dice che chi si prostituisce finirà per essere picchiata ogni sera dal suo sfruttatore e chi dimostra, foto alla mano, che si può avere una vita felice anche facendo la prostituta.
#FACESOFPROSTITUTION
A lanciare “inavvertitamente” l’hashtag è stata la Queer sex worker, uni graduate & horse rider Tilly Lawless su Instagram in risposta all’articolo apparso su Mamamia. Essendo Mamamia un sito australiano la ragazza se l’è presa e ha pensato che si riferisse alla situazione locale e quindi ha scritto un post in cui dice che non esiste un solo volto della prostituzione ma tanti volti e il suo ad esempio non è quello di una persona sfruttata. Hurrà! C’è una prostituta che non è sfruttata ed è contenta di farlo, in un paese dove la prostituzione è legale, direi che il problema dello sfruttamento della prostituzione è risolto. A quanto pare è quello che hanno pensato tante altre prostitute australiane che hanno deciso di mostrare la normalità delle loro vite. Ed è un piacere scoprire che anche le prostitute hanno una vita normale. In questo senso, al di là della contrapposizione manichea tra “prostitute felici” e “prostitute menate” che non dà conto della complessità del fenomeno la diffusione dell’hashtag e dei racconti delle prostitute australiane potrebbe essere qualcosa che aiuta a non vederle come oggetti sessuali ma come persone.
Nessuno si sogna di negare che chi sceglie di fare questo lavoro non si senta una persona “arrivata” o libera. Del resto contrapporre le due facce della prostituzione per cercare di dire che solo una è la vera #Faceofprostituion è un discorso che fa male a chi questo lavoro se l’è scelto ma soprattutto fa molto più male a quelle che invece si trovano costrette a farlo e non hanno via di scampo. Se dovessi indicare il male minore sarebbe il primo, non il secondo. La legittima protesta delle prostitute australiane rischia di danneggiare più quelle che vengono sfruttate che quelle che hanno fatto della prostituzione una libera e consapevole scelta lavorativa. Inoltre dai molti tweet che si vedono apparire in queste ore non viene eliminato il problema oggetto dell’articolo pubblicato dalla Mickelwait, ovvero che immagini del genere raccontino solo una piccola parte della verità sulla prostituzione facendo scattare il meccanismo di emulazione. A sua volta il pezzo apparso su Exodus racconta l’estremo opposto e non è certo così utile in un dibattito sulle problematiche legate alla prostituzione. Sarebbe molto più interessante poter leggere su Twitter le storie delle prostitute in modo tale da poter avere una visione completa del fenomeno e non solo dei due estremi opposti. Quello cui stiamo assistendo è una battaglia tra due estremi opposti (quelle che ce l’hanno fatta e quelle che invece sono finite male) che non finisce per schiacciare tutte le lavoratrici del sesso che si trovano nel mezzo (e che magari non vengono picchiate ma che nemmeno hanno fatto i soldi). In fondo l’articolo di Exodus racconta la parte più tragica del lavoro e le centinaia di tweet raccontano di una parte minoritaria e privilegiata della categoria di lavoratrici del sesso, quelle che hanno Twitter e possono usarlo per parlare liberamente della loro condizione. E a ben guardare, visto che molte nascondono la faccia forse non si sentono così “empowered” dal loro lavoro.
I TWEET PER #FACEOFPROSTITUTION
#facesofprostitution Tweets
Foto copertina via Twitter.com