Tutte le bufale sull’Amazzonia in fiamme (e cosa possiamo fare nel nostro piccolo)

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2019-08-26

Come al solito i proclami apocalittici non servono, così come sono pericolosi coloro che minimizzano la portata degli incendi dicendo che tutto è nella norma. Dal numero di incendi alla questione dell’ossigeno un problema vero c’è: è la produzione di CO2, e come al solito è colpa di tutti noi

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In pochi giorni l’opinione pubblica che si interessa del problema dell’Amazzonia che brucia è passata dal lamentarsi che nessuno ne parla (o non abbastanza quanto di altri temi) a cercare di trovare i colpevoli e i mandanti del rogo. Altri invece sostengono che sia sbagliato dire che sta bruciando l’Amazzonia perché in realtà sta bruciando una regione boschiva del Mato Grosso (in realtà il 52% dei roghi è stato registrato proprio in Amazzonia). Ed infine ci sono quelli che minimizzano: che dicono che gli incendi illegali ci sono sempre stati e che non c’è alcun picco nei roghi. Dove sta la verità?

Sta bruciando davvero tutta l’Amazzonia?

Un ottimo punto di partenza per iniziare a fare chiarezza sulla situazione è questo post di Giorgio Vacchiano (che è Ricercatore in scienze forestali all’Università di Milano)  pubblicato da CrowdForest. Il primo dato è che sì, quest’anno c’è stato un aumento degli incendi che tipicamente caratterizzano questa stagione. Le immagini satellitari hanno mostrato che da inizio del 2019 è il numero degli incendi è l’83% in più rispetto ai 39.759 del 2018. Rispetto alla media del 2013 (anno in cui si è iniziato a tenere conto dei roghi nel bacino amazzonico) si tratta di circa il 40% in più. Sul New York Times ci sono delle infografiche che mostrano la diffusione degli incendi e il trend a partire dal 2000.

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Il problema quindi è reale e non si tratta di una “ricorrenza” stagionale perfettamente in linea con il trend registrato negli ultimi sei anni. Non è vero – come scrive Filippo Facci – che «tutti hanno scritto che da gennaio ci sono stati 74mila incendi, ma è un numero che si riferisce all’intero Brasile: in Amazzonia sono stati 39mila». I dati dell’Istituto spaziale brasiliano parlano di 80.626 incendi in Brasile, 26.547 incendi in Venezuela, 18.960 incendi in Bolivia e così via.

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Una delle foto scattate dalla ISS e pubblicate dall’astronauta italiano Luca Parmitano [via Twitter.com]
In termini assoluti è andato in fumo lo 0,3% dell’estensione della foresta pluviale (in totale l’Amazzonia copre un’estensione pari a 6 milioni di km quadrati che si trovano in nove nazioni nel Sud America). Può sembrare una cifra modesta e poco allarmante, ma è il doppio di quanto è stato bruciato lo scorso anno. Significa quindi che non siamo di fronte ad una “apocalisse” amazzonica? Senza dubbio la maggior parte della foresta non sta bruciando. Ma sottovalutare il problema, tenendo conto che il Presidente brasiliano Bolsonaro (ma anche negli altri stati che si affacciano sul bacino amazzonico) ha fatto ampiamente capire che ha intenzione di chiudere un occhio sulle pratiche di disboscamento illegale rischia di creare un problema ben più grave in futuro. Secondo gli studiosi il 2019 potrebbe essere il primo anno in cui verrebbero persi oltre diecimila chilometri quadrati di foresta.

C’entra la soia e la produzione di carne? Sì

Di chi è la colpa se l’Amazzonia brucia? La risposta è semplice: dell’uomo. Gli incendi servono per “liberare” ampie porzioni di territorio dalla foresta. Vengono dati alle fiamme quelle porzioni di territorio boschivo che poi verranno utilizzate per il pascolo, la coltivazione (soprattutto di soia) ma – e questo è il caso della Bolivia che è il secondo stato del continente per numero di incendi – per agevolare le attività di estrazione mineraria.

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Fonte

Proprio a proposito della soia si è innescata la solita diatriba tra vegetariani e “carnivori” con i primi che accusano i secondi di essere tra i corresponsabili della deforestazione perché in Brasile si fa spazio soprattutto per la messa a coltura della soia che poi viene destinata all’alimentazione animale (in particolare di bovini e maiali). Si moltiplicano quindi gli appelli a cambiare il regime alimentare per il bene del Pianeta (o quantomeno dell’Amazzonia). Non c’è dubbio che la coltivazione della soia (così come l’allevamento di bovini sia per la carne che per la produzione di pellami) è da tempo tra i fattori che favoriscono la deforestazione. Dopo un periodo (fino ad almeno il 2011) in cui la deforestazione per fare spazio alla soia è andata calando. Tra il 2005 e il 2015 il disboscamento selvaggio delle aree della foresta Amazzonica in Brasile ha subito un rallentamento dell’80% rispetto agli anni precedenti ma a questa diminuzione potrebbe – proprio a causa delle politiche di Bolsonaro – potrebbe seguire un deciso aumento. Aumento che è già stato registrato negli ultimi due anni. Inutile aggiungere che è proprio l’Europa il “terminale” commerciale di tutti questi sforzi per produrre mangimi, carne e pellame. L’Amazzonia non è così lontana da poter ostentare indifferenza.

La questione dell’ossigeno prodotto dalla foresta amazzonica

Un altro aspetto che è stato notevolmente esagerato dai giornali (ma anche dai leader politici) è quello che riguarda la produzione di ossigeno del “polmone verde” amazzonico. Come spiega sempre il dottor Vacchiano in realtà la foresta Amazzonica non è il polmone verde del Pianeta perché una quantità variabile tra  il 50 e il 70% dell’ossigeno sulla Terra «è prodotto dalla fotosintesi delle alghe negli oceani. Il resto dalle praterie, dai campi coltivati (sì, anche loro) e dalle foreste che crescono velocemente, accumulando carbonio e rilasciando ossigeno». Nel caso dell’Amazzonia si può parlare invece di una produzione massima (teorica) del 6% dell’ossigeno ma – continua Vacchiano – «proabilmente ZERO, perché la foresta tropicale non ha una crescita netta positiva (tanti alberi crescono quanti ne muoiono e si decompongono per cause naturali). Anzi, da qualche anno ormai (a causa della deforestazione e della siccità ) l’Amazzonia CONSUMA ossigeno e emette anidride carbonica».

Il problema degli incendi in Amazzonia non è quindi la “quantità di ossigeno” che produce e che andrà persa, anche perché l’ossigeno non è la componente principale dell’atmosfera terrestre. Questo però non significa che i roghi non abbiano alcun impatto sull’atmosfera. Gli incendi producono infatti una grande quantità di anidride carbonica. Ed è questo l’aspetto di cui tenere conto. Fino ad oggi gli incendi hanno prodotto 230 milioni di tonnellate di CO2. Ed è proprio l’anidride carbonica il principale responsabile dell’effetto serra e di conseguenza dell’aumento delle temperature. Paradossalmente possiamo “permetterci” di perdere ancora porzioni della foresta pluviale amazzonica (non molto, il punto di non ritorno per la savanizzazione è calcolato quando si raggiungerà il 25% di porzione disboscata, e siamo intorno al 15%) ma non possiamo invece permetterci di aggravare il bilancio della presenza di CO2 nell’atmosfera. Certo, non ci sono solo gli incendi tra le cause ma tutte le attività umane (dagli allevamenti alla produzione industriale, le automobili e così via: 36 miliardi ogni anno). Ed è questo l’aspetto di che bisogna tenere a mente. Non tanto la perdita di ossigeno ma l’aumento di CO2 immessa nell’atmosfera. Ma per invertire il trend non basterà lanciare appelli per salvare la foresta pluviale, bisognerà iniziare a ridurre, ciascuno per proprio conto, la propria carbon footprint mettendo in atto comportamenti più virtuosi. Se proprio non riuscite a fare a meno della carne riducetene il consumo nella vostra dieta (ne guadagnerete in salute) ma anche ridurre gli sprechi alimentari e il consumo di plastica (e riciclare i rifiuti in maniera corretta), cercare di usare la macchina solo quando necessario, non sprecare acqua od energia elettrica.

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