Economia
Perché i giganti del web fatturano due miliardi e pagano 64 milioni di tasse in Italia?
di Alessandro D'Amato
Pubblicato il 2019-11-28
La dura realtà dietro la demagogia sui ladri di tasse del web: i colossi di internet risparmiano grazie al ricorso a paesi a fiscalità agevolata, previsto dalla legge, e perché hanno crediti fiscali alti derivati da investimenti in Italia, come Amazon
L’area studi di Mediobanca ha pubblicato ieri un rapporto sui primi 25 gruppi al mondo del web e del software (con fatturato superiore agli 8 miliardi di euro), realtà che crescono sei volte più velocemente delle multinazionali tradizionali e che nel 2018 hanno contabilizzato ricavi per 850 miliardi di euro con 110 miliardi di utili, occupando complessivamente 2 milioni di persone al mondo.
Come è possibile che i giganti del web fatturino due miliardi e paghino 64 milioni di tasse in Italia
Secondo il rapporto, illustrato oggi dal Sole 24 Ore, le prime tre società – Amazon, Alphabet-Google e Microsoft – fanno la metà dei ricavi del gruppo. I primi cinque staccano gli ultimi cinque per 480 miliardi di fatturato in media, mentre cinque anni fa la distanza era della metà: 240 miliardi. Negli ultimi cinque anni queste società – 14 statunitensi, 7 cinesi, 2 giapponesi, 2 tedesche – sono cresciute al ritmo del 20,3% all’anno (dimensioni più che raddoppiate in cinque anni) contro il 3,1% delle “normali” multinazionali. A crescere maggiormente le cinesi, con NetEase in testa (+54,8% all’anno), seguita dalla connazionale Alibaba (+49,1%) e dall’americana Facebook (+45,5%).
La loro grandezza si estrinseca anche nelle dimensioni di Borsa: ai primi posti in classifica ci sono Microsoft (1.027 miliardi di euro al 14 novembre), Google (821 miliardi) e Amazon (791 miliardi). Poi c’è il nodo delle tasse e quello delle filiali italiane:
Rispetto a un’aliquota nominale media del 22,5%, l’aliquota effettiva è stata pari al 14,1%: il 4% è spiegato dalla diversificazione geografica. In cinque anni, complessivamente, le 25 società hanno risparmiato 49 miliardi di tasse. La sola Apple, che non è ricompresa nel campione, ha risparmiato 25 miliardi.
Sono 15 su 25 le società che hanno filiato in Italia, ma sono 14 quelle di cui sono disponibili i bilanci. Da questi risulta che il fatturato complessivo è dell’ordine di 2,4 miliardi, sui quali sono state pagate tasse per 64 milioni, cui sono da aggiungere i 39 milioni di sanzioni imputate a Facebook l’anno scorso (altri 60 milioni incideranno sul bilancio 2019). Il tax rate effettivo medio è del 33%, ma è evidente che il giro d’affari in Italia è ben più ampio (31 miliardi l’e-commerce secondo le stime del Politecnico), solo che la gran parte è fatturato all’estero.
Come è possibile che i giganti del web fatturino due miliardi e paghino 64 milioni di tasse in Italia? Lo stesso rapporto di Mediobanca spiega che i giganti del web hanno risparmiato tra il 2014 e il 2018 oltre 49 miliardi di euro di tasse a livello globale, domiciliando circa la metà dell’utile ante imposte in Paesi a fiscalità agevolata. Il risparmio, rileva R&S Mediobanca analizzando i conti delle 25 WebSoft con fatturato superiore agli 8 miliardi di euro, sale a 74 miliardi se si includono i 25 di Apple, ‘regina’ dell’ottimizzazione fiscale, davanti a Microsoft (16,5 miliardi), Google (11,6 miliardi) e Facebook (6,3 miliardi).
I giganti del web, i paesi a fiscalità agevolata e i crediti fiscali per la ricerca
Nel 2018 l’aliquota media del campione è stata del 14,1%, ben al di sotto dell’aliquota ufficiale del 21% degli Usa e di quella del 25% della Cina, dove hanno la sede operativa gran parte delle aziende. Amazon, Google e Facebook sono riusciti a contenere il tax rate rispettivamente all’11%, 12% e 13%. Nel 2018 i colossi di internet hanno pagato 17,6 miliardi di tasse, risparmiando 5 miliardi grazie al ricorso a paesi a fiscalità agevolata, 1,3 miliardi grazie alla riforma fiscale degli Usa e 6,3 miliardi per i crediti fiscali relativi alle attività di ricerca. Da notare che tutte le sette Websoft cinesi hanno sede fiscale alle Cayman mentre 13 delle 14 statunitensi, con l’eccezione di Microsoft, nel Delaware. Nel dettaglio, in Italia Microsoft ha pagato 16,5 milioni, Amazon 6 milioni, Google 4,7 milioni, Oracle 3,2 milioni, Facebook 1,7 milioni, Uber 153 mila euro e Alibaba solo 20 mila euro. Il meccanismo utilizzato per risparmiare sulle tasse è sempre lo stesso: spostare il fatturato delle controllate dal Bel Paese all’estero, e in particolar modo nei Paesi dove le aliquote fiscali sono più basse. Il conto sale a 76 milioni se si includono i 12,5 di tasse pagati da Apple, non inclusa nel campione.
Ma Amazon non ci sta: “È fondamentalmente errato equiparare tutte le aziende digitali senza tenere in considerazione le differenze dei business in cui operiamo: l’imposta sulle società si basa sui profitti, non sui ricavi, e i nostri profitti sono rimasti bassi sia perché il retail è un business con margini ridotti sia per i continui, forti investimenti di Amazon in Italia che, dal 2010, ammontano a oltre 1,6 miliardi di euro“. Così il colosso del commercio elettronico Amazon replica, in una nota, in merito al Rapporto dell’Area Studi Mediobanca pubblicato oggi sulle Websoft. “Nel caso di Amazon, la nostra aliquota fiscale effettiva dal 2010 al 2018 – prosegue la società di Seattle – è stata mediamente del 24% e la nostra attività di international retail è in perdita. E questo rapporto ignora anche il record di investimenti e la continua creazione di posti di lavoro in Italia, che aggiungerà ulteriori 1.000 dipendenti a tempo indeterminato ai 6.500 entro la fine del 2019 – dipendenti che lavorano in oltre 20 sedi diverse con tutti i livelli di esperienza, istruzione e competenze, come, ad esempio, ingegneri, software developer, esperti di logistica o di marketing”.
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