Giappone, oltre gli Usa

di Claudio Landi

Pubblicato il 2018-09-08

La politica coreana di Donald Trump ha reso ‘poco affidabile’, la garanzia americana riguardo alle vicende dell’Asia nord-orientale. Proprio la gestione trumpiana del dossier coreano ha spinto Shinzo Abe verso Pechino. E ha messo benzina nei negoziati per quello che potrebbe essere il più importante accordo di libero commercio del 21° secolo, il cosiddetto RCEP, l’accordo di partnership economica regionale dell’Asia, comprendente i paesi dell’ASEAN, la Cina, il Giappone, la Corea del sud, l’India, l’Australia e la Nuova Zelanda

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“La relazione fra Cina e Giappone è ritornata agli standard normali”. Con questa dichiarazione, il primo ministro giapponese, il conservatore Shinzo Abe, ha messo definitivamente in chiaro l’evoluzione delle relazioni politiche ed economiche fra i due giganti economici dell’Asia, Cina e Giappone appunto. E ha messo benzina nei negoziati per quello che potrebbe essere il più importante accordo di libero commercio del 21° secolo, il cosiddetto RCEP, l’accordo di partnership economica regionale dell’Asia, comprendente i paesi dell’ASEAN, la Cina, il Giappone, la Corea del sud, l’India, l’Australia e la Nuova Zelanda.

L’accordo RCEP

Il round di negoziati per l’RCEP, l’area economica asiatica sostanzialmente a guida cinese, che si è tenuto a Singapore alla fine di agosto, ha dato una accelerazione imprevista. Commentatori e uomini di governo, in primo luogo il primo ministro di Singapore, Lee Hsien Loong, hanno osservato che i negoziati per l’RCEP potrebbero arrivare ad una ‘conclusione sostanziale’ per la fine del 2018. Quando si parla di Asia, è sempre una ottima cosa tenere sotto controllo le scelte della città stato di Singapore, per tantissime ragioni, non ultima il fatto che esso è uno stato molto efficiente nonchè governato dall’etnia cinese locale: quindi le osservazioni del premier singaporiano sono per definizione piuttosto importanti. I negoziati per l’RCEP sono iniziati nel novembre del 2012. Tanto per dare qualche numero, i paesi RCEP assommano la metà della popolazione mondiale e circa un terzo del Pil globale. Ma, nel 2050 potrebbero arrivare alla metà del Pil globale, di fatto diventando il centro di gravità del capitalismo del 21° secolo. Finora l’RCEP era stato visto come ‘l’alternativa’ al TPP, l’accordo transpacifico voluto dall’amministrazione Obama e fortemente spalleggiato dal governo conservatore giapponese di Shinzo Abe. Ma l’uscita dal TPP degli Stati Uniti da parte dell’amministrazione Trump, le guerre commerciali promosse da Washington in questi ultimi mesi (ad esempio contro l’industria dell’alleato Giappone), e le ‘oscillazioni’ strategiche, per così dire, dello stesso Trump hanno creato le condizioni propizie per la ripresa del discorso attorno all’accordo di partnership regionale pan-asiatico. ‘Dobbiamo essere uniti in Asia’, aveva detto, a luglio, il premier giapponese. E qui ritorniamo al cuore del discorso, le scelte geopolitiche del Giappone e la relazione fra lo stesso Giappone e la Cina.

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Giappone, oltre gli Usa

Le guerre commerciali di Trump e la uscita americana dal TPP hanno sicuramente condizionato la svolta di Tokyo, ma alla base delle scelte nipponiche vi sono anche importantissime questioni strategiche, che vale la pena di analizzare. Il Giappone, dalla fine della seconda guerra mondiale, è diventato uno strettissimo alleato degli Stati Uniti, tanto da accettare accordi monetari capestro come il ‘Plaza Agreement’. Negli anni Novanta però, di fronte all’ascesa dell’Asia, Tokyo aveva iniziato a ridefinirsi in termini geopolitici. Il governo Hatoyama, espressione del Partito democratico, che aveva messo all’opposizione lo storico partito di governo nipponico, il conservatore Partito liberaldemocratico con la vittoria a valanga nelle elezioni del 2009, aveva iniziato ad implementare una dottrina di ‘rientro in Asia’ che prevedeva ottimi rapporti con la Cina. Nel gennaio del 2010, si era giunti a parlare di una riconciliazione sino-giapponese anche sul lato della memoria storica: la Cina assieme ad altri paesi asiatici rimproverano duramente al Giappone le guerre di aggressione nipponiche della prima metà del Novecento che culminarono in una serie di atrocità senza precedenti come la strage di Nanchino. La riappacificazione storica sino-giapponese quindi costituiva e costituisce un elemento politico e culturale chiave per il dialogo e la pace di tutta l’Asia e in particolare fra Cina e Giappone. Questo approccio di Yukio Hatoyama evidentemente non piaceva molto all’amministrazione americana. Sia come sia, Hatoyama dette le dimissioni nel giugno del 2010. Caduto Hatoyama, Tokyo lasciò cadere almeno in parte quella dottrina del ‘rientro in Asia’. Shinzo Abe, leader del conservatore Partito liberaldemocratico conquistò il potere in chiave nazionalista per confermare l’alleanza strategico nippo-americana e per rispondere all’ascesa della Cina.
Ora è proprio quello Shinzo Abe a riprendere, in parte, e con modalità molto diverse, il discorso della relazione ‘normale’ con la Cina. Alla base del ‘cambio’ di Abe ci sono ragioni economiche come abbiamo detto prima, ma anche motivazioni strategiche. In particolare c’è il dossier coreano.

Shinzo Abe e “il dossier coreano”

Negli ultimi anni, la Corea del nord ha effettuato una lunga e provocatoria serie di test missilistici e nucleari. Ormai non si contano più i missili nordcoreani passati sulla testa dei cittadini giapponesi in questo teatro della provocazione imbastito da Pyongyang. In questa situazione, è facile immaginarsi come Tokyo possa aver vissuto e visto le ‘aperture’ dell’amministrazione Trump a Pyongyang, praticamente senza precondizioni e oltretutto senza una ampia intesa strategica con Pechino. La politica coreana di Donald Trump ha reso inaffidabile, o meglio ‘poco affidabile’, la garanzia americana riguardo alle vicende dell’Asia nord-orientale. Proprio la gestione trumpiana del dossier coreano quindi ha spinto Shinzo Abe verso Pechino: solamente la Cina infatti a questo punto può in qualche modo e con tutte le prudenze necessarie, dare qualche ‘garanzia’ a Tokyo circa Pyongyang e circa il dialogo coreano.

kim jong un corea del nord

Non bisogna mai dimenticarsi infatti che Giappone e Corea del sud, seppure entrambi alleati degli Stati Uniti, non hanno mai formato un blocco politico-militare comune: anche Seul infatti ha forti rimostranze politiche e storiche verso il Giappone, vecchia potenza di occupazione della Corea prima della seconda guerra mondiale. In queste condizioni, anche il rafforzamento politico della Corea del sud desta qualche timore a Tokyo. Anche in questo caso, la Cina può offrire al Giappone spazi di manovra strategici. Morale: le contraddizioni geopolitiche dell’amministrazione Trump si sono sommate alle scelte di guerra commerciale e hanno favorito una evoluzione del Giappone conservatore di Shinzo Abe verso l’Asia, la Cina in primo luogo. Il Giappone vuole sempre avere garanzie e polizze di fronte all’ascesa della Cina, ma questo forte elemento di rivalità ora non pare più oscurare i potenziali interessi, economici ma anche strategici, comuni fra le due grandi economie capitalistiche d’Asia

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