Di cosa trattano i tre referendum sul Jobs Act che il governo vuole evitare

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2016-12-15

Licenziamenti disciplinari, voucher e derogabilità della solidarietà retributiva in materia di appalti, questi i tre quesiti del referendum della CGIL sul Jobs Act che Poletti non ha il coraggio di affrontare

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Quando la Consulta, l’11 gennaio, avrà espresso il suo parere sui tre quesiti referendari proposti dalla CGIL per abrogare altrettanti aspetti del Jobs Act allora avremo la certezza che prima o poi andremo a votare anche per il referendum. Di mezzo però ci sono le elezioni politiche e soprattutto la volontà del governo – manifestata ieri in modo alquanto irrituale dal Ministro del Lavoro Giuliano Poletti – di andare alle urne per il rinnovo del Parlamento prima del referendum in modo da far slittare di un anno la consultazione sul Jobs Act.
referendum jobs act cgil

Il quesito sull’Articolo 18 e i licenziamenti disciplinari

Tutti danno per scontato che tra poco meno di un mese la Consulta darà il via libera ai tre quesiti referendari, a quel punto Poletti e Gentiloni si troveranno di fronte ad un bivio; da una parte la soluzione più semplice e già tracciata dal Ministro del Lavoro: accettare che si andrà a votare sul Jobs Act e quindi far approvare quanto prima la nuova legge elettorale per andare al voto in primavera e quindi far slittare di un anno il referendum abrogativo che rischierebbe di trasformarsi in un ennesima chiamata alle armi delle opposizioni per abbattere una volta per tutte Renzi. L’alternativa è quella di mettere mano al Jobs Act per ritoccarlo in quelle parti oggetto del referendum in modo da evitare che gli italiani vengano chiamati alle urne per esprimersi su uno dei punti cardine dell’azione di governo di Matteo Renzi. È una strada perfettamente percorribile che però presenta più di qualche problema in primis l’indisponibilità di Poletti di andare a smantellare alcuni aspetti fondamentali del Jobs Act come ad esempio l’abolizione dell’articolo 18 o i voucher. Per Poletti e Gentiloni sarebbe un po’ come rinnegare uno dei leit motiv della narrativa renziana, la vulgata che vuole che il Jobs Act sia in grado di far ripartire il Paese. Fino ad ora però i dati dicono un’altra cosa, e al di là dell’aumento dei livelli occupazionali ai fini della discussione sui referendum proposti dalla CGIL pesano soprattutto i dati resi noti dall’Osservatorio sul precariato dell’Inps che ha rilevato un aumento rispetto al 2015 del 28% dei licenziamenti disciplinari (ovvero proprio la materia normata precedentemente dall’Art. 18 dello Statuto dei Lavoratori) nei primi otto mesi del 2016. Si è passati insomma dai  36.048 licenziamenti disciplinari del 2015 ai 46.255 dello stesso periodo del 2016. A pesare su questo aumento soprattutto la certezza – per le aziende – che il lavoratore non ha diritto al reintegramento in caso di ingiusto licenziamento. La crisi ovviamente continua a giocare il suo ruolo fondamentale ma l’assenza di un certo tipo di tutele ha convinto le aziende che percorrere la strada della mediazione è un inutile spreco di tempo. Il referendum – spiega la CGIL – mira a ripristinare la possibilità di reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento disciplinare giudicato illegittimo anche per le aziende al di sotto dei 15 dipendenti e sopra i cinque dipendenti.
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Regole più strette per l’utilizzo dei voucher contro il precariato

C’è poi la questione dei voucher ovvero del lavoro occasionale accessorio, particolarmente sentita soprattutto tra i giovani che si affacciano sul mondo del lavoro e che rispetto al 2015 son aumentati del 34% in cifre significa che tra gennaio e settembre 2016 le aziende hanno acquistato 109 milioni e 553.754 mila “buoni”. Teoricamente i voucher avrebbero dovuto servire per consentire l’emersione del lavoro nero. Ma è accaduto esattamente l’opposto, ovvero i ticket vengono utilizzati per nascondere il lavoro nero. A dirlo non è solo la CGIL ma anche il presidente della Commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano e il presidente dell’INPS Tito Boeri che ha definito i voucher la nuova frontiera del precariato. Tradotto in parole povere il problema relativo ai voucher è questo: il datore di lavoro segna un’ora pagata con i voucher lavoro ma è possibile che il lavoratore (tutt’altro che occasionale) di ore effettive ne abbia lavorate molte di più. Poi, quando scattano i controlli a campione o, nella peggiore delle ipotesi, si verifica un incidente sul lavoro il datore di lavoro prontamente compila anche i voucher per coprire le ore restanti in modo da risultare in regola con i contributi. Sulla modifica della normativa relativa ai voucher e al pagamento del lavoro accessorio anche Cesare Damiano ieri si è detto possibilista, spiegando che è necessario limitarne l’uso, magari tornando alla Legge Biagi. Damiano lo diceva già qualche tempo fa:

le prestazioni di lavoro accessorio devono tornare ad essere attività lavorative di natura meramente occasionale, rese da soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro. Biagi elencava le tipologie: piccoli lavori domestici, assistenza domiciliare a bambini o persone anziane ammalate o con handicap. E ancora: l’insegnamento privato supplementare, piccoli lavori di giardinaggio, nonché di pulizia e manutenzione di edifici e monumenti, e così via. Lo spirito della legge Biagi è stato profondamente cambiato. Così l’idea di far emergere quote di lavoro nero si è trasformata esattamente nel suo contrario.

Il problema infatti è che mentre la Legge Biagi prevedeva che i voucher potessero essere utilizzati solo per “lavoretti” con la nuova normativa i datori di lavoro possono pagare prestazioni che inizialmente non erano previste nel concetto di “buono lavoro“. Senza contare che i voucher per il lavoro accessorio non possono far emergere tutto il lavoro nero ma solo quella quota parte che si può qualificare come occasionale e accessorio. Il Referendum della CGIL chiede la cancellazione del lavoro accessorio.

voucher nuove regole
Le nuove regole sui voucher (La Stampa, 11 giugno 2016)

Reintroduzione della responsabilità solidale degli appalti

L’ultimo quesito è forse quello meno immediatamente politicizzabile perché è quello più tecnico, e se il governo fosse furbo lascerebbe in piedi solo questo in modo da non consentire al referendum di raggiungere il quorum (ricordiamo che si tratterà di un referendum abrogativo). Si tratta dell’abrogazione delle norme che limitano la responsabilità solidale degli appalti; con il referendum la CGIL chiede di reintrodurre la piena responsabilità in solido tra appaltatori e appaltante in caso di irregolarità retributive o contributive nei confronti dei lavoratori. Si tratta di una norma che riguarda tutti quei lavoratori assunti da un appaltatore che ha ricevuto l’incarico da un committente quindi oggetto di esternalizzazioni. La normativa attuale riguardante la derogabilità della solidarietà retributiva è andata a modificare la Legge Fornero e prevede che il lavoratore, qualora ravvisi delle irregolarità debba prima fare causa (e vincerla) sia nei confronti del datore di lavoro sia del committente che però ha la possibilità di eccepire il beneficio di preventiva escussione il che significa che il lavoratore deve prima tentare di recuperare il proprio credito dal datore di lavoro e dei subappaltatori e solo successivamente poter avanzare le proprie richieste al committente. Il problema naturalmente nasce dal fatto che gli appaltatori sono generalmente difficilmente in grado di pagare i debiti e questo rappresenta una disparità di trattamento tra lavoratori perché i dipendenti dell’appaltatore avrebbero più difficoltà nel veder riconosciuti i propri diritti. Il referendum della CGIL mira quindi a consentire al lavoratore di poter recuperare i crediti direttamente presso il committente evitando così di dover citare in giudizio sub appaltatori e appaltatori.

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