Il pauroso aumento di un euro per gli infermieri che hanno combattuto il Coronavirus

di neXtQuotidiano

Pubblicato il 2020-05-21

In pratica un infermiere che negli ultimi tre mesi ha lottato contro il Covid-19 mettendosi a disposizione per doppi turni, lavoro ad alta intensità, senza fare ferie o riposi, ha continuato a percepire uno stipendio di 1.500 euro o poco più. Ma non c’è solo il Piemonte.  Anche in Veneto è successo la stessa cosa

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«Eh sì, la gente ci applaudiva. Poi chi aveva promesso prebende e compensi, ci ha fatto l’elemosina. Un aumento nello stipendio di marzo e di un euro per ogni turno fatto. Le sembra normale? Prima ti dicono bravo, eroe, fantastico. Poi ti umiliano con un’elemosina». Claudio Delli Carri, sindacalista ed infermiere, alla Stampa di oggi ha raccontato il modo piuttosto curioso con cui è stata espressa riconoscenza agli infermieri dalla sanità regionale del Piemonte.

Il pauroso aumento di un euro per gli infermieri che hanno combattuto il Coronavirus

La storia dell’euro in più a turno è uno scandalo che rimbalza in ogni chat, in ogni discussione, in ogni pausa caffè dove c’è un infermiere presente. Tradotto in soldoni quell’euro in più vuol dire una pizza al mese extra: 20 euro su per giù. Anche se poi alla fine qualche soldo in più arriverà. Perché alcune Asl del Piemonte hanno capito che non era così giusto. E hanno fatto scelte diverse. E intanto su 24 mila e rotti infermieri ed Oss del Piemonte, il 14 per cento è rimasto contagiato dal Coronavirus. Per questo ieri sono scesi in piazza:

Ecco la rabbia nasce da lì. E investe tutti. La Regione in primis. Poi lo Stato. Il ministero. Il premier Conte e tutti quanti. E non solo da ieri che sono scesi in piazza i lavoratori della sanità del sindacato Nursind per denunciare altre carenze, ma da più lontano. Da quel silenzio terribile con gli infermieri e i medici muti nel cortile del più grande, il più organizzato ospedale del Piemonte: le Molinette di Torino. Era il 30 di aprile. «Il nostro silenzio è per sottolineare come dalla Regione, in questi mesi di emergenza, abbiamo avuto soltanto silenzi» dicevano.

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Puntando il dito sulle stesse cose di ieri in piazza Castello: la mancanza di Dpi, le mascherine che non c’erano, i turni massacranti, la paura di infettarsi, i colleghi malati, e via elencando. L’euro in più – da incassare come extra nei mesi di marzo e aprile (ma poi anche maggio e fino a fine emergenza) è soltanto un’ennesima beffa. Che non riguarda direttamente la Regione, la sfiora «e arriva giù giù, fino a Roma», come dice il signor Delli Carri.

In pratica un infermiere che negli ultimi tre mesi ha lottato contro il Covid-19 mettendosi a disposizione per doppi turni, lavoro ad alta intensità, senza fare ferie o riposi, ha continuato a percepire uno stipendio di 1.500 euro o poco più. Ma non c’è solo il Piemonte.  Anche in Veneto è successo la stessa cosa, spiega oggi Il Fatto:

UN MODELLO di distribuzione a pioggia, sulla falsariga di quello adottato da Luca Zaia, che ha optato per una ripartizione percentuale pro-capite, trovandosi di fronte il muro eretto dai sindacati autonomi dei medici dirigenti ma anche dalla federazione della Cisl-Medici, in contrasto con Cgil e Uil. In ballo in Veneto ci sono 61 milioni, che si traducono in una disponibilità netta di circa 45,8 milioni. Ma con il criterio adottato, ai medici va solo circa il 20% del fondo, mentre il restante è destinato al comparto, cioè al resto del personale sanitario, senza tenere conto del fatto che, per esempio, sui primi grava un carico fiscale più elevato. Cosa che ha portato i medici veneti a fare un po’di conti: 300 euro netti a testa una tantum.

“Questo è il valore di quelli che tutti, in piena emergenza, acclamavano come eroi”, dice il segretario nazionale dell’Anaao Carlo Palermo. Anche se nessuno ne vuole farne una mera questione di soldi, come spiega Adriano Benazzato (Anaao Veneto): “Ci rifiutiamo di firmare per come ci trattano: la considerazione nei nostri confronti non c’è, se non a parole”. Ma il fatto è che sui riconosci
menti si assiste a una vera babele: ogni Regione procede per conto proprio. Se il Piemonte ha aperto ora il percorso di negoziato con i sindacati e il Veneto si appresta a chiudere l’intesa senza un via libera unanime, ci sono quattro Regioni che i “patti” sulla ripartizione li hanno siglati – Emilia-Romagna , Toscana, Lazio e Umbria – mentre le altre sembrano essere ancora in alto mare. E in tutti e quattro i casi, gli accordi sono arrivati senza proteste.

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