Economia

Perché la Brexit è la risposta sbagliata al problema dell'immigrazione

di Giovanni Drogo

Pubblicato il 2016-06-16

I sostenitori del Leave si sentono minacciati dagli studenti e dai lavoratori europei che si trasferiscono nel loro paese, ma i dati rivelano che i cittadini europei costituiscono solo una minima percentuale della bilancia dei flussi migratori

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Si avvicina la data del 23 giugno, il giorno in cui i cittadini del Regno Unito saranno chiamati ad esprimersi in merito al referendum sull’uscita del Paese dall’Unione Europea. Gli ultimi sondaggi danno in vantaggio il fronte del “Leave” ovvero i sostenitori della Brexit e sono in molti in Europa a credere che alla fine – nonostante gli appelli di Cameron e pure di Obama – l’Inghilterra lascerà la comunità europea per tornare ad isolarsi. Ma davvero l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea risolverà tutti i problemi del Paese, soprattutto quelli riguardanti l’immigrazione? La risposta sembra essere una sola: no.

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Quarant’anni di immigrazione in Regno Unito (credits: Independent.co.uk)

Gli europei che emigrano verso il Regno Unito sono solo il 24% del totale

Solo l’anno scorso tutti o quasi erano disposti a scommettere sull’ipotesi “Grexit” ovvero sull’uscita della Grecia di Tsipras dall’euro. Oggi invece la minaccia alla tenuta, politica prima ed economica poi, dell’Unione Europea arriva dal Nord, più precisamente da quella nazione che nel 1992 decise di uscire volontariamente dal Sistema monetario europeo. Ma perché il Regno Unito se ne vuole andare? Le ragioni dei sostenitori del Sì al referendum della settimana prossima sono molte ma la tesi più forte, attorno alla quale viene raccolta la maggior parte dei consensi, è la lotta all’immigrazione, corollario di quel ritorno alla sovranità nazionale che solo l’uscita dal sistema europeo potrebbe garantire. Ma davvero uscire dall’Unione Europea risolverebbe il problema dei lavoratori comunitari che scelgono di trasferirsi in Inghilterra? Secondo una ricerca svolta dall’Independent negli ultimi venticinque anni solo il 24% dell’immigrazione netta (ovvero tenendo conto anche degli inglesi che si trasferiscono all’estero) verso il Regno Unito è costituita da cittadini dell’Unione. Il restante 76% dei migranti invece proviene da paesi extra-UE. L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, e la conseguente fine degli accordi Schengen (che è uno dei temi cari a Cameron e alla ministro degli esteri Theresa May) non comporterebbe quindi un’automatica diminuzione degli ingressi di lavoratori stranieri in UK. Se allarghiamo la prospettiva temporale ad un periodo di quarant’anni vediamo come all’immigrazione dai paesi europei debba essere attribuita una quota ancora minore del totale. I dati dell’ufficio nazionale di statistica rivelano come le nazionalità la cui presenza è in crescita sono quelle che molto difficilmente lascerebbero il paese in caso di vittoria dei “Leave” si tratta di coloro che provengono da India, Cina e Pakistan (che sono le tre principali fonti dell’immigrazione in UK) mentre per quanto riguarda i cittadini polacchi (la quarta nazionalità per numero di presenza in Regno Unito) si sta assistendo ad un’inversione di tendenza con molti polacchi che stanno già facendo ritorno in Polonia. Questo anche perché nel frattempo (2004) la Polonia è entrata nell’Unione Europea (solo a fine 2007 la Polonia ha aderito agli accordi di Schengen).

Rapporto tra contributi versati e benefici ricevuti dalle varie categorie di popolazione inglese (fonte: BBC.com)

Rapporto tra contributi versati e benefici ricevuti dalle varie categorie di popolazione inglese (fonte: BBC.com)

I turisti del welfare

C’è poi il discorso del peso dell’immigrazione sulla spesa pubblica, alcuni studi hanno dimostrato che gli immigrati contribuiscono alle finanze pubbliche del Regno di Sua Maestà più di quanto prelevino dal sistema del welfare. Lo stesso vale anche per gli studenti di origine straniera, senza di loro nelle classi – scrive l’Independent – i costi delle rette sarebbero molto più alti per i cittadini britannici. Infine c’è la questione dei veri turisti del welfare (come ha definito gli immigrati Theresa May). Come spiega questo pezzo del Financial Times sono infatti molti gli inglesi che vivono all’estero e che hanno scelto come meta un paese dell’Unione Europea. Si stima che l’anno scorso fossero circa un milione e ottocentomila i cittadini britannici residenti nella UE (a fronte dei 2.3 milioni di cittadini europei residenti in UK), un milione dei quali nella sola Spagna. Si tratta principalmente di pensionati che hanno scelto di “svernare” al caldo dei paesi del Sud, dove il clima, il cibo e soprattutto l’assistenza sanitaria sono migliori. Non è difficile capire che le persone anziane generalmente hanno maggiore necessità di ricorrere alle cure mediche (e quindi “scroccare” i benefit del paese ospitante) rispetto ai giovani. Quello che la May non dice è che coloro che emigrano in Inghilterra lo fanno per cercare lavoro e non per poter ottenere il sussidio di disoccupazione. Chi lavora in Regno Unito paga le tasse in Regno Unito e quindi contribuisce al sistema del welfare del paese usufruendo in maniera minore dei benefit che gli vengono concessi. Ma c’è di più, una recente ricerca ha mostrato che il risparmio per la Gran Bretagna è “doppio” da un lato ottiene manodopera qualificata (laureati) le cui spese di istruzione non sono state sostenute dal sistema educativo nazionale, dall’altro essendo la popolazione immigrata intra-UE composta prevalentemente da giovani a fronte delle tasse pagate dai lavoratori il “prelievo” sui conti del sistema sanitario e del welfare britannico sarà molto basso. I giovani, è la tesi dello studio, hanno meno bisogno di ricorrere ai servizi del NHS. Questo ovviamente senza tenere conto dell’eventualità in cui il “giovane lavoratore” scelga di rimanere in Inghilterra una volta raggiunta l’età pensionabile.

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